In evidenza
Sezioni
Magazine
Annunci
Quotidiani GNN
Comuni

Internato in un campo di prigionia, i figli chiedono 200 mila euro alla Germania

La famiglia Zilio ha fatto causa alla Germania, sfruttando il decreto Draghi. Il papà ha trascorso due anni in prigionia

Federico Cipolla
2 minuti di lettura

Quasi due anni trascorsi in un campo di prigionia, costretto ai lavori forzati, superando due inverni con la sola divisa estiva che indossava quando è stato catturato dalla Wehrmacht. Eugenio Zilio è riuscito ad uscirne vivo, grazia alla sua tenacia e al coraggio. Oggi i figli vogliono che per quel dolore e per quelle ferite rimaste nell’anima di Eugenio fino alla morte sopraggiunta nel 1986, sia fatta giustizia.

I figli, assistiti dagli avvocati Marco Seppi di Venezia e Matteo Miatto di Treviso, hanno citato in giudizio la Germania chiedendo un risarcimento di quasi 200 mila euro. La possibilità di vedere riconosciuto un risarcimento – da tempo oggetto di una diatriba internazionale – è stata data dal decreto legge del Governo Draghi, che ha istituito un fondo da 55 milioni fino al 2026 (il Milleproroghe ha posticipato il termine per le cause), rendendosi così disponibile, di fatto, a pagare al posto della Germania per coloro che sono stati internati.

Il termine ultimo per chiedere il risarcimento è stato prorogato al 28 giugno prossimo. Da qui l’azione promossa dai quattro figli di Eugenio Zilio. «Ha continuato ad avere incubi e strascorrere notti insonni per molti anni a causa di quello che ha vissuto durante la prigionia», riferisce Augusto Zilio. Non è stato facile ricostruire la storia dell’internamento del papà. Lui non ne ha mai voluto parlare, se non occasionalmente, e comunque accettando di rivivere il dolore di quei due anni vissuti all’inferno. Ma alla fine i familiari sono riusciti a raccogliere documenti, che hanno dimostrato la sua permanenza nello Stammlager VI-F di Bocholt, in Westfalia.

Eugenio Zilio era il più vecchio di dieci fratelli. Aveva iniziato a lavorare molto giovane, in Piemonte, nei vigneti, poi aveva trovato impiego come operatore nel cinema. Nel ’43, quando non aveva ancora compiuto 20 anni, la chiamata alle armi.

Arruolato nel Reggimento Artiglieria, è stato catturato dalle truppe tedesche dopo pochi mesi, a settembre. Da lì è iniziato l’incubo. Caricato su un vagone per il bestiame insieme ad altri commilitoni catturati, dopo giorni di viaggio senza mangiare e senza bere è stato internato nel lager di Bocholt.

Sottoposto a lavori forzati in aziende belliche, è stato costretto a lavorare dodici ore al giorno, svegliandosi all’alba per affrontare una marcia di chilometri per raggiunge il luogo di lavoro, e tornare in tarda serata. Il cibo? Una brodaglia, e una patata da dividere con altri internati.

Condizioni disumane, aggravate da malattie e virus che mietevano vittime nelle baracche in cui i prigionieri erano costretti a vivere ammassati. Tubercolosi, tifo, polmoniti.

Quasi due anni trascorsi in questo inferno, fino a quando nel 1945 gli alleati hanno liberato il lager, e Eugenio, arrivato a pesare 34 kg, ha potuto fare ritorno a casa. Non senza conseguenze, «se in televisione passava un film sui campi di concentramento, papà non riusciva a dormire a lungo. Riaffioravano i ricordi, cambiava umore», ricorda Augusto.

La tempra gli ha permesso comunque di rifarsi una vita emigrando in Canada, e mettendo su famiglia. E oggi sono proprio i suoi figli, attraverso gli avvocati Marco Seppi di Venezia e Matteo Miatto di Treviso, a chiedere che venga fatta giustizia, per quelle sofferenze che gli sono rimaste impresse nella memoria per troppo tempo.

I commenti dei lettori