«Scrivi quando arrivi»: ecco come imparare a non distrarsi al volante
Marco Bonifati, primario del reparto di Neurochirurgia dell’Ospedale Ca’ Foncello di Treviso: «La cosiddetta mindfulness insegna al cervello a non divagare. Sarebbe utile per tutti, soprattutto per chi guida»
lorenza raffaello
TREVISO. Le distrazioni alla guida rappresentano le principali cause di incidenti automobilistici. Banalità? No, se si conta che nella Marca nella sola notte tra sabato e domenica sono stati tre gli episodi di fuoriuscita di mezzi. La distrazione principale è rappresentata dall’uso del telefono durante la guida, un gesto che accomuna purtroppo tutti i conducenti.
Quella dal telefonino ha preso le sembianze di una vera propria dipendenza ed è spesso alimentata dal problema di un uso eccessivo e patologico di Internet. Secondo le ultime ricerche in ambito medico scientifico, nonostante l’uso del telefonino aumenti del 70% la possibilità di incidente rispetto al conducente che non lo utilizza, il 56% dei guidatori ammette di utilizzare lo smartphone durante la guida.
E i numeri relativi agli incidenti si aggravano se con il device si è intenti a scrivere messaggi o addirittura email, un gesto che aumenterebbe del doppio le possibilità di uscire di strada e del 150% la possibilità di non rispettare le distanze di sicurezza. Quanto l’utilizzo del telefonino in particolare, ma anche degli altri device, impatta sul nostro cervello durante la guida?
Ci ha risposto Domenico Marco Bonifati, primario del reparto di Neurochirurgia dell’ospedale Ca’ Foncello.
Il primario Domenico Marco Bonifati
«Partiamo col dire che utilizzando il telefonino i tempi di reazione si allungano molto, anche solo se abbassiamo lo sguardo per due secondi. Basti pensare a quanti metri percorre in quel tempo una macchina cha va a 70kmh. Oltre al fatto che, quando l’attenzione è rivolta ad altro, i riflessi si rallentano e poi, per riprendere il controllo, ci si mette diversi secondi, talvolta preziosissimi. Queste sono considerazioni dettate anche dal buon senso».
Perché non riusciamo a essere pronti?
«La nostra attenzione si focalizza solo su una cosa. Noi abbiamo una working memory, una sola e unica memoria di lavoro utile a realizzare quello che ci serve in quel momento. Se la nostra attenzione è rivolta a qualcosa significa che non possiamo occuparci di altro. Se succede un imprevisto, per quanto io abbia i riflessi veloci, non sono pronto. Facendo un paragone in termini informatici, la memoria di lavoro è come la Ram. Quando sto svolgendo un compito, attingo al mio cervello e prendo tutto quello che mi serve per svolgerlo. Se la mia memoria lavoro è impegnata su più fronti sarò più lento, come un computer che si blocca quando sono aperti otto programmi differenti. Per il cervello ancora di più»
Riflessi pronti, quindi, ci salvano la vita?
«I riflessi sono ciò per cui davanti allo stimolo rispondiamo senza pensarci. In gergo medico si dice che intervengono circuiti sottocorticali, cioè archi riflessi, che non passano attraverso la mia volontà o coscienza. Alcuni riflessi sono innati, genetici, come quando mi scanso se qualcosa mi sta venendo addosso, lo faccio in modo istintuale come lo farebbe un animale. Altri riflessi, soprattutto quelli della guida, li devo imparare e questo implica allenamento. Il giovane appena presa la patente non possiede questi riflessi perché non sono innati, deve imparare a come reagire di fronte a certi stimoli dalla strada e calibrare la velocità di reazione, diversamente da un guidatore esperto che ha introiettato molti meccanismi. I riflessi si costruiscono col tempo e con l’esperienza. La guida dell’auto non è innata nel nostro cervello, devo imparare, e poi diventa automatica».
I ragazzi sanno che usare il telefonino alla guida è rischioso, perché lo fanno comunque?
«I giovani hanno un’alterata percezione del rischio, che non è attinente al reale come quella di un adulto. Sono più sicuri di sé e tendono a minimizzare i rischi che corrono per un eccesso di esuberanza e perché non ne hanno corsi ancora abbastanza. A causa della scarsa esperienza, non hanno avuto sufficienti vissuti negativi o traumatici, anche solo sfiorati. A volte insegnano di più i cosiddetti “missing events”, cioè quelle volte che abbiamo sfiorato l’incidente, oppure siamo stati coinvolti in incidenti di lieve entità. Si tratta di episodi che fortunatamente non hanno avuto conseguenze e per questo insegnano la sensazione del rischio».
Esiste un metodo per imparare a rimanere concentrati?
«Sì, attraverso le tecniche di meditazione, anche quelle occidentali come la mindfulness, che è una terapia cognitivo comportamentale, cioè cambia i comportamenti delle persone cambiandone gli schemi cognitivi che utilizzano. È interessante ed efficace. Oltre a essere una terapia è anche un esercizio di gestione del proprio corpo, basato sul concetto di essere presenti nel momento in cui si vive, il qui e ora, porre attenzione a quello che si sta facendo e non lasciare che i pensieri corrano a destra e sinistra, con poca efficienza. La mindfulness insegna al cervello a non divagare, non distrarsi. Sarebbe utile per tutti, soprattutto per chi guida».
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