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Paolo Malaguti racconta Asolo: «Un diamante puro incontaminato dalla modernità che ci educa alla bellezza»

Lo scrittore narra la peculiarità del borgo in cui abita da sei anni e perché merita di vincere la selezione nazionale tra le città che valorizzano il sapere

Paolo malaguti
3 minuti di lettura


Vivo nella pedemontana del Grappa da quindici anni, e da sei mi ha accolto proprio la terra d’Asolo, candidata a Capitale della Cultura 2024. Continuo a sentire Padova come città del cuore, forse perché in Veneto, se ti sposti anche solo di pochi chilometri dal luogo in cui sei cresciuto, subito acquisti la patente di foresto. Nonostante questo non ho faticato ad innamorarmi perdutamente di questi luoghi. Asolo è bella, c’è poco da fare. Forse troppo bella. Mentre arrivi dalla bassa la vedi lì in fondo, adagiata sulla prima delle colline che muovono verso Cornuda, così regolari nel loro profilo da apparire disegnate da un bambino; vedi la rocca, più in basso la torre, il centro raccolto e cinto dalla vegetazione, e poi le rade ville perse tra gli ulivi.

Certo, chi conosce queste zone sa che Asolo in qualche modo è una prima tappa di altri spettacoli che arrivano se si procede oltre, dagli scorci delle colline di Monfumo, ai tesori di Possagno, fino agli spalti arditi del Grappa (pronto a diventare Riserva della Biosfera Unesco). Però Asolo è lì, davanti alla pianura, fa quasi da sentinella, e non a caso la sua fortuna, prima che divenisse il luogo di delizie sotto la Pax Marciana, era dovuta al nucleo fortificato che sorvegliava efficacemente le vie di comunicazione circostanti, a partire dalla Via Aurelia che sale da Padova, dritta come un fuso.

La bellezza asolana la respiri d’estate, quando ti lasci alle spalle il caldòn becco (detto anche stonfàz) della pianura e i portici ombrosi e i muri spessi di pietra chiara dei palazzi ti donano un senso di frescura e di riparo quasi intimo dalla canicola. E la respiri pure d’inverno, quando, affacciandoti da una delle tante terrazze della “città dai cento orizzonti” di carducciana memoria, domini la pianura immersa nel caligo, e ti pare quasi di respirare meglio, e sembra che, anche a fine novembre, la primavera sia tutto sommato lì dietro l’angolo.

Ma quali sono, a conti fatti, gli ingredienti di questa tanto decantata bellezza asolana, così perfetta da farti sentire, a tratti, quasi un intruso?

Al di là del patrimonio artistico (che in Italia purtroppo rischia quasi di non fare più notizia) credo che siano due gli aspetti davvero eccezionali, specie se si combinano assieme: il suo essere subito a ridosso della pianura, e il suo essere un diamante puro, praticamente incontaminato dagli eccessi della modernità.

Per le grosse città non vale nemmeno la pena di fare il discorso: devono garantire i servizi, devono muoversi veloci, e quindi è normale che più o meno ovunque siano nati quei palazzoni orripilanti che soffocano la facciata di una chiesa medievale, o troncano un viale ottocentesco.

Ma nella nostra provincia veneta questi sfregi recenti, proprio perché perpetrati su spazi più ridotti e a ridosso dell’aperta campagna, emergono in modo più eclatante, violento, quasi osceno.

E purtroppo anche nei paesi e nelle cittadine della pedemontana del Grappa è normale avere a che fare con questi pugni negli occhi, per cui la villa veneta dialoga con l’anonimo condominio, la pieve rinascimentale con il capannone, l’antica aia con la villetta a schiera invenduta e lasciata al grezzo.

Ecco, Asolo pare avere avuto in grazia lo strano miracolo di preservarsi dal miracolo del nordest.

Il centro storico ti permette di fare un salto indietro nel tempo, ti offre l’opportunità più unica che rara in Veneto di godere di un ambiente preservato quasi integralmente nella sua identità preindustriale.

E questa cosa, venendo al discorso cui accennavo prima, appare quasi disturbante per un veneto. Siamo così abituati alla penetrazione del brutto fin nel cuore del nostro paesaggio che quando incontriamo queste pietre preziose, una parte della nostra mente ce le presenta come anomalie, come monstra da trattare con deferente diffidenza, con rispettoso sospetto.

Non siamo più educati alla piena bellezza, e quando questa ci viene incontro restiamo lì, imbambolati come dei pandoli. Per carità, ogni medaglia ha il suo rovescio, e questa purezza asolana si traduce in una vocazione turistica che (come capita a tanti tesori artistici del Bel Paese) a tratti rischia di levare respiro ai residenti, a chi in quel centro vive la propria quotidianità.

O ancora, se risiedi nel comune di Asolo impari presto che quando ti domandano “Di dove sei?” non basta dire “Di Asolo”, ma poi devi precisare se sei del “centro centro” o se, come il sottoscritto, vivi al di fuori dello scrigno, come a Casella o Pagnano, e ancora oggi non puoi fare a meno di sentirti un po’ servo della gleba di fronte alle eleganze turrite e gelosamente rinserrate della Asolo alta.

Insomma, spero che Asolo si meriti la promozione a Capitale della Cultura non solo (o non tanto) perché bella, o perché densa di storia, ma perché è in grado di lanciare un messaggio: che la bellezza si può preservare, che la velocità non è sempre un valore, che il patrimonio culturale in nostro possesso deve essere obbligatoriamente preservato per le prossime generazioni, e che questo comporta precise responsabilità di governo e di gestione del territorio.

E infine mi piace credere che, in un mondo nel quale quasi tutte le città sono legate alla memoria di uomini (vedasi a puro titolo di esempio le città del Palladio, del Santo, del Giorgione, del Canova, del Tiziano e così via), sia finalmente arrivato il momento di consegnare il ruolo di capitale della cultura ad una città che appartiene idealmente non ad una, ma a ben tre donne. Caterina Cornaro, Eleonora Duse, Freya Stark. Sarebbe, mi pare, un bel segno. —


 

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