Ed è a metà del libro (510 pagine, divise esattamente in 255 scritte e altrettante di foto) che Loris ricorda di avere incontrato Alfredo Beltrame, nel luglio 1946, reduce dalla guerra e dalla prigionia in Africa, catturato dai francesi. «Al suo incontro è legato il nome di un dolce che ha raggiunto una grande notorietà anche se con un nome storpiato, il tiramesù, e non tiramisù come ormai fanno dappertutto». E aggiunge: «Male, molto approssimato e industriale, senza la poesia che caratterizza il lavoro dell’artigiano pasticcere». Orgoglio di un mestiere, di una sapere e di un saper fare.
Ed ecco la “vera historia”, come la definisce Loris: «Siamo nel ‘47, a Treviso, piccola città con prete di buon vivere, la guerra è finita e, anche se superstiti, siamo tutti giovani, forti ed entusiasti della vita che ci si apre davanti. Alla sera frequentiamo, anche per la compagnia, una famosa casa di piacere molto chic, dove la sera cucina , per le gentili ospiti, un nostro pasticcere, part-time, Danilo el rosso (perché rosso di capelli). Luglio è periodo di esami, ed eravamo tutti ragazzi di scuola dovevamo dare gli esami di fine corso: la maitresse viene in sala , ci guarda e dice “a letto ragazzi che siete molto giù di corda“. A quel punto Danilo esce dalla cucina, e dice “speté un atimo fasso mi un dolse speciae” E va in cucina, lavora con uova zucchero mascarpone savoiardi e una bottiglia di marsala all’uovo della Ricci di Padova». Casellato annota: «Tutti ingredienti che c’erano nelle cucine non povere della nostra città». E ricorda ad esempio el sbatutin, il roso d’uovo sbattuto fatto sbiancare con tanto zucchero.
Lasciamo la parola a Loris. «Danilo prende un piatto ovale, vi distende uno strato di savoiardi li bagna con la marsala cui ha aggiunto caffè fragrante e forte, e stende sopra un bello strato d’uovo battuto con aggiunto tanto mascarpone. Continua così per ben tre strati e sta per darcelo….ma a quel punto, c’è nella compagnia un giovane capitano dell’aviazione americana, Weinstock, ebreo di Manhattan. Tira fuori dalla borsa di sacco militare, quella che sarebbe diventata famosa ai tempi degli eskimo, ne estrae un barattolo con scritto sopra “New York cocoa” (cacao), prende una forchetta, lo buca e dice “mettiamoci sopra anche questo”. E lì, appoggiato alla porta della sala di accoglienza, con l’inseparabile Gauloise accesa, annuncia seriamente: “o ciamaremo tiramesù”». Ricostruzione molto cinematografica, se si vuole, ma anche molto autoreferenziale, in ambito pasticcero. È stata scritta in tempi non sospetti, quando non c’erano le odierne disfide trevigiana- friulane sulla paternità. E indubbiamente rafforza il mito della piazza, che ha sempre attribuito le radici del dolce alle case di piacere, retrodatando la creazione del dolce, che poi sarebbe stato brevettato da Alba Campeol e Lolli Linguanotto, nei primi anni’ 60, con tanto di certificato dell’Accademia della Cucina. Straordinaria la suggestione del battesimo da parte di Alfredo Beltrame, per arricchire di un autentico coup de theatre la storia della cucina trevigiana. Loris ci aggiunge un piccolo riscontro personale: nel 1991, per andare a correre la maratona di Boston, fece tappa a New York, e andò a trovare la figlia del capitano statunitense, a sua volta pasticcera specializzata in “cake design” a Tribeca. «E si ricordava di suo padre che le parlava del dolce, e voleva che le passassi la ricetta».
Il tocco internazionale che non guasta, per il dolce più universale della tradizione trevigiana.
Andrea Passerini
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