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Buon compleanno, Max Payne: 20 anni di sparatorie e bullet time

Buon compleanno, Max Payne: 20 anni di sparatorie e bullet time
Nato sulla scia di “Tomb Rider”, il gioco di Remedy capitalizzò il successo di “Matrix” per diventare uno dei titoli più amati di quegli anni con i suoi scontri al rallentatore
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Capita spesso nel mondo dei videogiochi di utilizzare la frase “è come un film”, i confini tra i due media sfumano spesso e i videogiochi per tanti anni hanno cercato di avvicinarsi alla Settima Arte per ottenerne il prestigio e accattivare il pubblico. Max Payne, che compie 20 anni in questi giorni, senza dubbio è stato uno di quei giochi in grado di farcelo dire spesso, sia per la storia che racconta sia per il tempismo con cui uscì.

“Erano tutti morti. L’ultimo colpo fu come il punto esclamativo a chiusura di quello che era successo. Allentai la presa sul grilletto. Era tutto finito”. Le prime parole pronunciate da Max Payne mentre la telecamera si muove lungo un grattacielo immerso in una bufera di neve a  New York hanno posto le fondamenta perfette per uno degli sparatutto più suggestivi e celebrati mai realizzati. Un gioco che ha reso popolare il “bullet time” all'interno del genere d'azione mescolando i noir, la mitologia norrena, il mondo del fumetto e i film d'azione di Hong Kong in una storia di vendetta, paranoia e pazzia che ancora oggi viene voglia di rigiocare.

Lo sviluppo di Max Payne inizia nel 1996, anno di uscita di Tomb Raider, che rappresenterà una delle principali ispirazioni per il titolo di Remedy, il cui obiettivo era però fare qualcosa di ancora più potente a livello visivo, con un taglio fortemente cinematografico e una ispirazione hard boiled in grado di catturare l’attenzione dei giocatori, ma evitando un protagonista che forse il classico eroe senza macchia e senza paura.

Un momento importante per il gioco fu la decisione di utilizzare dei fumetti per le scene d’intermezzo al posto di momenti cinematici che sfruttassero il motore grafico del gioco. Una scelta presa per risparmiare sui costi e i tempi di sviluppo che si rivelò molto azzeccata. Uno degli aspetti più interessanti di Max Payne infatti è la capacità di combinare scene d’azione di prim’ordine con una narrazione che riesce a rimanere sul confine sottile che separa un bel racconto noir con una parodia che si prende troppo sul serio. Frasi come “Era da qualche centinaio di proiettili che avevo smesso di raccogliere prove. Mi ero spinto così oltre il punto di non ritorno da averlo oltrepassato, senza nemmeno rendermene conto” sono esattamente ciò che ci vuole per anticipare la prossima sparatoria adrenalinica.

L’altro fattore che giocò a favore di Max Payne fu senza dubbio il tempismo. Il gioco doveva uscire nell’estate del 1999 ma alla fine fu rimandato al 2001, Matrix era arrivato nei cinema due anni prima portando al grande pubblico l’estetica e le sparatorie tipiche dei film di John Woo e del cinema asiatico, ma soprattutto aveva sdoganato definitivamente il termine “bullet time” ovvero quell’effetto di rallentamento con cui un regista può evidenziare il percorso di una pallottola o alcune acrobazie particolarmente spettacolari. Max Payne fa ampio uso del bullet time, visto che il protagonista può tuffarsi in ogni direzione e nel contempo sparare con maggiore precisione, sfruttando il tempo dilatato, la comparazione tra le due opere fu ovviamente immediata e caldeggiata da Remedy, che finì per includere più di un omaggio alla pellicola delle Wachowski.

Per ottenere un’azione fluida i Remedy, che erano uno studio con fondi limitati, furono costretti a lavorare in maniera quasi artigianale. Non potendo contare su uno studio di motion capture i movimenti del protagonista furono ripresi in una palestra grazie all’amico di uno sviluppatore che era istruttore di arti marziali ed esperto di armi, per poi rifarli completamente a mano. Per rendere l’atmosfera ancora più realistica parte dello staff fece una gita a New York, così da scattare centinaia di foto di edifici, strade e interni da replicare nel gioco. Infine, visto che i volti del gioco erano presi da fotografie, parenti, amici e vicini di casa finirono dentro il gioco come passanti o scagnozzi, mentre Sam Lake, autore del gioco, prestò la sua faccia a Max, diventando una sorta di meme prima dei meme per la sua espressione accigliata.

Il risultato finale fu che Max Payne rappresentava già vent’anni fa un crogiolo ideale delle possibilità offerte dal medium: una storia dal taglio cinematografico molto classica impreziosita dalla possibilità di vivere sparatorie spettacolari degne di Matrix con un livello grafico al top per il periodo e con alcuni passaggi da leggere come un fumetto. Non era un gioco perfetto, e alcune recensioni puntarono il dito contro una trama poco innovativa e i fumetti che spezzavano troppo il ritmo, ma era un gioco ricco di carattere. Il gioco ebbe un discreto successo, due seguiti una trasposizione cinematografica (orribile) e contribuì a proiettare Remedy nel novero delle software house da tenere sempre d’occhio.

Dopo di lui il bullet time cominciò a diffondersi in tantissimi titoli, tanto che ancora oggi è usato in capolavori come Red Dead Redemption 2 e in Control, ultima fatica di Remedy, in cui il DNA di Max e il suo gusto per le sparatorie si sente ancora, a 20 anni di distanza.