Stanchezza, mancanza di fiato, tosse, gonfiore: sono tutti sintomi collegati allo scompenso cardiaco, una condizione che solo in Italia colpisce circa 600 mila persone ed è la prima causa di ricovero degli over 65. Quando c'è, il cuore non è più capace di far bene il suo lavoro: pompare sangue per ossigenare i tessuti.
Una condizione che può manifestarsi e peggiorare nel tempo o comparire all'improvviso, nelle forme acute. Forme che possono essere gestite con maggior successo grazie a uno stretto monitoraggio e a un rapido adattamento della terapia, fino a raggiungere i livelli raccomandati dalle linee guida. Rispetto allo standard di cura, infatti, uno "ad alta intensità" per pazienti con scompenso cardiaco acuto riesce a ridurre le ospedalizzazioni e i decessi. È quanto emerge dallo studio STRONG-HF i cui risultati sono stati appena pubblicati su Lancet.
Le domande senza risposta
Lo scompenso cardiaco acuto molto spesso è un peggioramento della condizione cronica della malattia, e i pazienti ricoverati per scompenso cardiaco acuto sono ad alto rischio di ri-ospedalizzazione e decesso, soprattutto nei primi mesi dopo la dimissione. La gestione di questi pazienti non è semplice: i medici sono cauti nell'aumentare i dosaggi terapeutici, per i pochi dati a disposizione relativi all'approccio terapeutico, come farmaci da prescrivere, in quali dosi e in quale tempo e sulla base di quale monitoraggio. È proprio da qui che è partito il lavoro dei ricercatori: cercare evidenze per guidare la pratica clinica.
Lo studio
Così, per capire se fosse possibile migliorare questa strategia di trattamento, lo studio STRONG-HF ha paragonato lo standard di cura a un trattamento cosiddetto ad alta intensità. Quando si parla di "alta intensità di cura", in questo caso, ci si riferisce a uno schema di trattamento che prevede lo stretto monitoraggio, in cui accanto a visite frequenti sono stati utilizzati test di laboratorio, incluso il test Elecsys NT-proBNP (frammento n-terminale del BNP, peptide natriuretico cerebrale), un esame che aiuta nella diagnosi differenziale di scompenso cardiaco e nella stratificazione del rischio dei pazienti. Questo stretto monitoraggio è stato usato per controllare l'aumento della terapia. Nel complesso, sono state coinvolte nello studio un migliaio di persone.
I risultati
I dati mostrano che, sotto stretto monitoraggio, è possibile aumentare le terapie fino ai dosaggi raccomandati dalle linee guida. Infatti, nel braccio "ad alta intensità", a distanza di sei mesi è diminuito il rischio assoluto (8,1%) e il rischio relativo (34%) di mortalità per tutte le cause o ri-ospedalizzazione per scompenso cardiaco rispetto l'attuale standard di cura. Nei pazienti sotto stretto monitoraggio, spiegano ancora gli autori, il rischio di mortalità o ri-ospedalizzazione era del 15% rispetto al 23% del braccio di trattamento standard. Anche la qualità di vita dei pazienti nel braccio sperimentale è stata migliore. Questo, a fronte di un aumento del rischio di eventi avversi, ma non gravi, e probabilmente in parte imputabili anche al monitoraggio più intenso. Infatti, a fronte dei risultati, lo studio è stato interrotto precocemente per i benefici superiori osservati nel braccio sperimentale.