Professione: esploratrice di cimiteri. La storia di Giulia Depentor
Nel suo podcast racconta la curiosa caccia tra le tombe in giro per il mondo. Una nutrita comunità di “camposanter” ne segue le imprese
Alessia De Marchi
Giulia Depentor, l'esploratrice dei cimiteri
«Andar per cimiteri, che gita meravigliosa», pensava quella bimba che, tenendo per mano nonna Leda, passeggiava per il camposanto di San Donà e si fermava curiosa davanti alla tomba della Palmira. «Che signora seria», si diceva, «chissà qual è la sua storia?».
E qualche mese fa dagli archivi del Comune di San Donà, sfogliando gli atti di matrimonio per una ricerca genealogica, riecco apparire Palmira in un certificato di nozze. Il ricordo di Giulia Depentor, 40 anni festeggiati lo scorso giugno, è tornato a quella foto in bianco e nero che la guardava da una tomba, ora rimossa.
«Un cerchio che si chiude», esulta l’autrice del podcast Camposanto, aperto nel 2020 nel silenzio del lockdown da pandemia e ora seguito da più di ottomila “camposanter”, così chiama i suoi fedeli ascoltatori appassionati di cimiteri e soprattutto storie.
Depentor, un cognome che rimanda echi di serenissimi antenati professionisti della pittura, è nata a San Donà, si è laureata in Scienze politiche a Padova, ha girato il mondo per lavoro e spirito da esploratrice, ora vive a Treviso con il marito Alessio Madeyski, biologo molecolare dalle ormai lontane ascendenze polacche.
Se, vista la passione per i cimiteri, vi aspettate di trovarvi davanti a una misteriosa figura emaciata che si aggira al calar del buio tra le tombe, resterete delusi. Giulia Depentor ama sì il silenzio dei cimiteri, ma ha una tremenda paura di fantasmi e cadaveri.
«Sono facilmente impressionabile», confessa con quella voce dolce accompagnata da una leggera inflessione concessa alla cantilena veneta che i suoi camposanter ben conoscono. E aggiunge: «Non mi interessa quello che c’è dentro alle tombe, ma quello che c’è fuori e sopra». Tradotto: le storie. «Sono affascinata dalle vite che scopro indagando su una foto, su un nome, su una data di nascita e di morte».
Perché questo interesse per i cimiteri?
«Perché sono scrigni pieni di vita, e non è un ossimoro. Qualcuno, non ricordo esattamente chi, ha detto: che sono luoghi fatti dai vivi per i vivi. Ed è una verità assoluta. Nei cimiteri si scoprono mondi, usanze, tradizioni,... Ogni Paese ha un modo per rapportarsi con chi non c’è più, per raccontare il suo passato ed è questo uno degli spunti delle mie ricerche che poi si traducono in puntate del podcast. Racconto solo i cimiteri che ho visitato di persona.
Mi mantengo occupandomi di comunicazione digitale, tecnicamente di content marketing. Ho vissuto e lavorato a Parigi, Barcellona, Berlino, in giro per l’Italia, ... Sono stata in Nuova Zelanda per una sorta di anno sabbatico. Qui, lavorando per una libreria che vendeva volumi antichi e di seconda mano, mi sono lasciata conquistare da quei fiori secchi, quelle foto seppiate che spuntavano all’improvviso tra le pagine ingiallite dal tempo. Inseguivo le storie».
Quanti cimiteri ha visitato in questi anni?
«Tantissimi, fino quasi a perderne il conto: sicuramente più di 280 e in quasi tutti i continenti. Mi manca l’America Latina».
Il primo?
«Se si escludono quello di San Donà che conosco alle perfezione e quelli che visitavo da bimba con mamma e nonne, il primo è stato quello di Père-Lachaise a Parigi, dove sono entrata cercando il bacio di rossetto che la tradizione, ora abolita, voleva appoggiassero le visitatrici sulla tomba di Oscar Wilde. Mi sono fermata sulla lapidi di Jim Morrison, Callas, Chopin, ...».
Come sceglie i cimiteri da visitare?
«A volte sono quasi loro a scegliere me. Girando in auto, m’imbatto in una mura di cinta che mi incuriosisce e mi fermo. Dentro, mi lascio condurre dalla curiosità: mi fermo davanti alla tomba di due giovani morti lo stesso giorno e inizio a cercare la storia. È successo a Montevarchi dove sono sepolti due ragazzi suicidatisi a inizio del secondo scorso per difendere il loro amore contrastato.
Poi ci sono le esplorazioni a cui mi preparo con grande attenzione: mi informo on line, approfondisco rompendo le scatole a proprietari, uffici cultura di Comuni, custodi,... Mappe alla mano, visito i grandi cimiteri monumentali, ma poi cerco anche quelli abbandonati, nascosti o in disuso. Mi aiutano le mappe satellitari di Google: l’occhio è allenato a riconoscere le aree di sepoltura».
Se dovesse fare una classifica, quali sono i suoi tre preferiti?
«Quello di Lanzago raccontato da Buzzati, quello abbandonato di Forno di Zoldo (semplicemente stupendo con il suo affaccio sulle Dolomiti, l’edera e le tante storie dimenticate) e ancora quello monumentale di San Michele a Venezia (suggestivo da raggiungere in vaporetto, con una leggera nebbiolina autunnale e da qui godere una vista inedita su Venezia).
Ne aggiungo un quarto: quello napoleonico di Caorle, in disuso ma tenuto bene nello stato in cui era a inizio Novecento, un magnifico esempio di quello che gli inglesi chiamano decadimento arrestato».
E il suo rapporto con chi si occupa di morte?
«Ricevo una sorta di gratitudine di ritorno da parte dei necrofori. Racconto il lor lavoro con una luce diversa. Me l’ha confermato anche una tanatoesteta durante un’intervista»
Oltre al podcast, giunto alla quinta stagione, Giulia Depentor sta lavorando a un libro che uscirà, manco a dirlo, nel periodo dei morti.
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