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Siamo ridotti ormai a pregare perché cada la pioggia

In Duomo a Verona è stata esposta la “sacra spina”, una tradizione del Duecento, quando il popolo dopo quattro mesi ininterrotti di siccità invocò la grazia dell’acqua

Francesco Jori
2 minuti di lettura
Campi riarsi dopo la grande siccità degli ultimi mesi 

Non ci resta che il miracolo. A un cielo che da settimane ci nega la pioggia, la gente di Verona si è rivolta nei giorni scorsi implorando che almeno ci conceda il prodigio: in Duomo, è stata esposta la “sacra spina”, riproponendo una tradizione del Duecento, quando il popolo dopo quattro mesi ininterrotti di siccità invocò la grazia dell’acqua. Ieri come oggi, una reliquia ultima spiaggia contro la Grande Sete.

Un incubo dovuto al clima impazzito, certo: il 2022 è stato il peggiore degli ultimi settant’anni, e gli indicatori dei primi mesi del 2023 ci avvertono che andrà ancora peggio; rendendo di drammatica attualità la Giornata dell’Acqua in programma mercoledì, uno stringente pro memoria sui ritardi accumulati nell’adempiere ai compiti indicati nell’obiettivo 6 dello sviluppo sostenibile di Agenda 2030.

Ma nella vistosa crisi idrica in atto, alle cause di forza maggiore si aggiungono comportamenti colposi & dolosi: specie in un’Italia che è il Paese europeo con il maggior prelievo di acqua potabile, 420 litri al giorno per abitante, dato dieci volte superiore ai bisogni di base; in compenso anche quello con le più pesanti perdite idriche, il 40 per cento, con punte del 50 nelle aree con più alta presenza di siccità, e con deficit più rilevanti nei centri maggiormente abitati.

L’ultimo rapporto Istat segnala che nelle città capoluogo italiane si perdono 41 metri cubi d’acqua al giorno per ogni chilometro di rete idrica, con punte del 70 in alcuni casi-limite, tra cui nel Nordest Belluno (ma anche con situazioni opposte, come Pordenone col 14); cinque regioni su venti perdono per strada oltre metà della risorsa.

Colpa di una rete che fa letteralmente acqua da tutte le parti per carenza di manutenzione: il 60 per cento ha oltre trent’anni di vita, il 25 per cento supera i cinquanta. Lo sappiamo da lungo tempo, da ben prima della siccità, ma ci limitiamo a dircelo e ad accumulare ritardi: con l’attuale tasso di rinnovo, per sostituire l’intera rete, di anni ce ne vorrebbero 250…

Il paradosso è che quanto a materia prima, siamo tra i più ricchi d’Europa: in Italia esistono oltre 1200 fiumi, 347 laghi, 526 grandi dighe, 20mila piccoli invasi; nelle tre regioni del Nordest ci sono più di 280 corsi d’acqua tra principali e minori, e centinaia di laghi (il Trentino-Alto Adige è chiamato la “Finlandia d’Italia”). Eppure immagazziniamo appena poco più del 10 per cento dell’acqua piovana, oltretutto in continuo calo: non solo e non tanto per le precipitazioni sempre più scarse, quanto per la cronica carenza di manutenzione degli impianti, a partire dagli sfangamenti. Il risultato è che rispetto a cinquant’anni fa stocchiamo nove miliardi di metri cubi in meno di acqua piovana. A questo si aggiunge un deficit strutturale: mancano all’appello duemila piccoli e medi invasi.

Il quadro, desolante di suo, è reso catastrofico dai primi allarmanti dati climatici di questo 2023, con devastanti ricadute per la sete non solo delle persone ma anche e soprattutto dei campi: è a rischio un terzo della produzione agricola nazionale. A un cielo avaro, dobbiamo dare una mano non solo con consumi virtuosi, ma anche con investimenti mirati per colmare un deficit accumulato nei decenni. Non di sole novene vive l’uomo.

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