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"Gli spiriti dell'isola"

 

Cinema al 100 per cento, ecco le recensioni dei film usciti il 2 febbraio

Al cinema due film che insieme collezionano 20 nomination agli Oscar. Arriva in sala “Gli spiriti dell’isola” di Martin McDonagh già presentato con successo a Venezia e ora candidato a 9 statuette. Sono, invece, 11 le nomination di “Everything Everywhere All At Once” dei “Daniels” che ritorna al cinema, dopo un’uscita in sordina a ottobre, con la sua folle avventura nel metaverso. Tra noir e melò il nuovo film di Park Chan-wook (Decision To Leave) incanta

Marco Contino e Michele Gottardi
4 minuti di lettura

DECISION TO LEAVE

Regia: Park Chan-wook

Cast: Hae-il Park, Wei Tang, Go Kyung-pyo, Yong-woo Park, Lee Jung-hyun

Durata: 138’

"Decision to leave"

 

Hae-joon è un meticoloso detective della polizia di Busan. Chiamato ad indagare sulla morte di un uomo caduto da un dirupo, conosce Seo-rae, la moglie cinese della vittima, con la quale tesse una relazione ambigua. Ne resta ammaliato ma, allo stesso tempo, prova a resistere all’attrazione con la razionalità dell’uomo di legge che sospetta che Seo-rae sia tutt’altro che estranea alla morte del marito. Mentre le loro strade continuano ad incrociarsi, un altro omicidio coinvolge la donna, assillando la mente e il cuore del detective. Il nuovo film di Park Chan-wook – Decision to leave – si muove, sinuoso, tra il noir e il melò e segna uno scarto piuttosto evidente nella filmografia di un regista mitizzato per la sua trilogia della vendetta. Chan-wook non rinuncia a imprimere il proprio marchio di autore che, della forma estetica, ha fatto anche sostanza.

Qui, il gioco di rifrazioni e sovrapposizioni, di schermature e di commistioni di linguaggi diversi (non solo il cinese e il coreano ma, soprattutto, quelli che gemmano dalla tecnologia: chat, messaggi vocali, geolocalizzazioni …) sono funzionali ad una storia che, nelle pieghe ambigue, nelle sterzate e nella rivisitazione di un immaginario classico che omaggia, ovviamente, Hitchcock, ha, “alfine”, una radice sentimentale molto tenace.

“Decision to leave”, nonostante questa riconoscibile impronta estetica, finisce per spogliarsi del non necessario (la violenza, per esempio, resta negli occhi delle vittime), come se il regista sentisse il bisogno di sottrarre per riempire lo schermo di suggestioni e di non detti. Non più mostrare a tutti i costi ma sfiorare, sussurrare, lasciando macerare i due protagonisti in un conflitto insuperabile e aspettando, lentamente, la marea. La sequenza sopra la montagna mentre cade la neve al lume di una torcia è magnifica. (Marco Contino)

Voto: 7

***

EVERYTHING EVERYWHERE ALL AT ONCE

Regia: Dan Kwan, Daniel Scheinert

Cast: Michelle Yeoh, Stephanie Hsu, Ke Huy Quan, James Hong, Jamie Lee Curtis

Durata: 139’

“Everything Everywhere All At Once”

 

Forte di 11 nomination agli Oscar, esce di nuovo in sala “Everything Everywhere Alla At Once” che aveva debuttato, un po’ in sordina, nei cinema italiani lo scorso ottobre. Siamo unici oppure infiniti? Quante versioni di noi sono astrattamente possibili? La fascinazione per il multiverso è, ormai, tema ricorrente nel cinema.

E se la declinazione più immediata e fracassona è quella targata Marvel (in particolare con l’ultimo “Doctor Strange”), la coppia di registi Dan Kwan e Daniel Scheinert sperimenta una strada indipendente e, in parte, inedita, soprattutto sul piano estetico (senza abdicare, però, dai contenuti).

“Everything Everywhere Alla At Once” racconta la storia di Evelyn (l’intramontabile Michelle Yeoh) che dopo aver lasciato la Cina per gli Stati Uniti, è rimasta “frullata” dentro una vita che non sembra darle tregua: la lavanderia a gettoni che gestisce insieme al marito, il mite Waymond (Ke Huy Quan,: i più fisionomisti lo ricorderanno, bambino, in “Indiana Jones e il tempio maledetto” ma, soprattutto nei “Goonies”), è una fonte di problemi continua; il rapporto con la figlia Joy (Stephanie Hsu,) è sempre più problematico ora che la ragazza ha una relazione omosessuale da tenere nascosta al nonno Gong Gong (James Hong, l’iconico “Lo Pan” di “Grosso guaio a Chinatown”).

E una spietata ispettrice delle tasse (Jamie Lee Curtis) minaccia la sopravvivenza dell’esercizio. Ma Evelyn non sa che quella vita è solo una delle tante e che la sua “io” di un altro universo ha una missione più grande e più importante da realizzare. Gli incredibili salti da una realtà parallela all’altra sono solo l’inizio di una avventura epica.

“Everything Everywhere Alla At Once”, distribuito da I Wonder, imbocca tante strade per riparare, alla fine, nell’elogio della gentilezza, la vera arma per affrontare ogni realtà le cui infinite sfaccettature offrono ai registi il destro per combinare insieme l’estetica wuxia pian di Hong Kong, le derive visionarie di un Michel Gondry (come nell’universo divergente delle dita enormi a forma di wurstel) e persino l’irriverenza di un Quentin Dupieux (la sequenza dei sassi è favolosa), con un gusto “analogico” e tenacemente anni ’80 (la provenienza dei protagonisti è lì a certificarlo) che affranca il film dalla facile identificazione con un Marvel qualsiasi.

Certo, il gioco di scatole cinesi rischia più volte di diventare ripetitivo come anche l’insistenza sull’epilogo sentimentale, ma c’è qualcosa, nei costumi cangianti di questa saga familiare, nella fantasia dei trampolini multiverso, nello sberleffo delle arti marziali con improbabili nunchaku fallici e oggetti la cui ergonomia suggerisce da subito applicazioni endoscopiche, nella voracità creativa e cinefila (c’è, ovviamente, anche “Matrix” nell’uploading delle abilità dei protagonisti), da rendere irresistibile l’attrazione dentro a quel buco nero (anzi, quel “bagel” nero) che è l’intrattenimento. Finalmente libero.

Finalmente sganciato dal semplice “potevamo stupirvi con effetti speciali e colori ultravivaci” che, oggi, non basta più. Tra le 11 nomination, anche quelle pesanti per il miglior film, e la miglior regia e ben quattro candidature agli attori (Yeoh come protagonista, Huy Quan, Hsu e Lee Curtis da non protagonisti). (Marco Contino)

Voto: 7

***

GLI SPIRITI DELL’ISOLA

Regia: Martin McDonagh

Cast: Colin Farrell e Brendan Gleeson

Durata: 114’

"Gli spiriti dell'isola"

 

Cosa è accaduto tra due amici di lunga data che dalla sera alla mattina non vogliono più parlarsi. O meglio uno vorrebbe, ma l’altro no. Tutto giocato sul registro dell’assurdo e del grottesco, il film di Martin Mc Donagh (già autore del tosto “Tre manifesti a Ebbing, Missouri) si avvia a un grosso successo planetario, dopo la presentazione a Venezia 79, grazie alle nove candidature agli Oscar e ai tre Golden Globe vinti da poco.

È il 1923: mentre sta volgendo al termine la guerra civile irlandese, nell'immaginaria isola irlandese di Inisherin la lunga amicizia tra il violinista Colm e l'umile mandriano Pádraic s'interrompe bruscamente da un giorno all'altro senza apparente motivo, a causa del rifiuto di Colm di frequentare ancora l'amico, considerato vacuo e noioso. Meglio dedicarsi alle composizioni per violino, nel poco tempo che resta da vivere.

Un atteggiamento intransigente quanto il clima e il luogo, un’isola davanti alla costa, pochi abitanti, una messa alla domenica mattina e tutto intorno solo muretti a secco, asini, cavalli, pecore, vacche, una prefica inquietante e molte pinte di birra.

Per tracciare, con toni molto dark, questa complessa storia di un’amicizia al maschile McDonagh si affida al duo dell’esordio di culto, “In Bruges”, Colin Farrell e Brendan Gleeson. Il primo è l’ingenuo Pádraic, mite e gentile sinché non sclera, il secondo è il monolitico Colm, insofferente della noia quotidiana, della vacuità dei discorsi ripetitivi, della vita che non lascia tracce, fino a isolarsi e compiere atti di autolesionismo.

Ironico e drammatico a un tempo, scritto in modo sublime mescolando dialoghi e silenzi, il film riflette la natura irlandese, ma è intriso di temi profondi, trattati con brio a dispetto dello scenario.

Il conflitto esistenziale, mentre sullo sfondo permane quello bellico, fa emergere la necessità di affidare a qualcosa, se non a qualcuno, un’eredità tangibile, non necessariamente un’opera d’arte, come una ballata per violini. In un modo dove l’umanità continua a dilaniarsi, qualcuno si commuove per la morte di un’asina, più che per un uomo. (Michele Gottardi)

Voto: 7.5

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