Cinema al 100 per cento, le recensioni dei film usciti il 24 novembre

Il film "Bones and all"
Un film … da mangiare. Arriva in sala l’attesissimo e cannibalesco “Bones and All” di Luca Guadagnino con Timothée Chalamet, Leone d’argento alla regia a Venezia. I fratelli Dardenne raccontano la storia di altri due fratelli (non di sangue ma di disperazione) in “Tori e Lokita”. Ancora fratelli: questa volta i Manetti Bros. che ritornano con “Diabolik 2 – Ginko all’attacco”, ma senza grandi aspettative. Chiude un documentario distribuito dalla padovana Trent Film sulla realtà dei giovani vongolari sul Delta del Po: “Fortuna Granda”.
Ecco le nostre recensioni dei film usciti nelle sale cinema italiane giovedì 24 novembre.
Regia Luca Guadagnino
Cast: Taylor Russell, Timothé Chalamet
Durata: 130’

Amore sanguigno, carnale, vampiresco se non viscerale, quello dei giovani cannibali di “Bones and all” di Luca Guadagnino, Leone d’argento alla regia a Venezia 79, nello scorso settembre al Lido, tratto dal romanzo di Camille DeAngelis, Fino all’osso.
È un film che difficilmente può essere collocato tra i generi definiti, un po’ horror, un po’ film sentimentale, un po’ romanzo di formazione sui generis, di fatto un film sull’impossibilità di essere se stessi.
Ma il tema dell’alterità, caro a Guadagnino, questa volta non è declinato sulla diversità di genere, di definizione sessuale. L’essere cannibali costituisce un’altra eccezione alla presunta normalità della vita borghese, dalla quale i nostri due giovani fuggono e rifuggono.
La ragazza, Maren è Taylor Russell, sta cercando la madre, che l’ha abbandonata quasi alla nascita, convinta della sua stessa natura. Lee, il ragazzo (Timothé Chalamet), invece, ritrova in lei il suo specchio esistenziale di emarginato. Insieme attraversano l’America ai tempi di Ronald Reagan – siamo negli anni ’80 – in un on the road abbastanza convenzionale, che tuttavia ha il pregio di far emergere il dato esistenziale sin dalle prime inquadrature, quando Guadagnino inquadra Gente di Dublino di James Joyce.
È quindi un film sul baratro, sul terrore che cresce dentro gli stessi protagonisti quando si accorgono di essere altro. La dimensione dei ragazzi del film, che coinvolge anche lo spettatore, è quella della vertigine, lo spaesamento che li prende per non riuscire a essere diversamente che quello che sono.
Ma vi è anche un elemento mitologico, in questa fagocitazione ripetuta, in una sorta di mito di Cronos al contrario, dove non sono i padri a sbranare i figli, ma questi ultimi che divorano, con gli adulti, anche le proprie radici.
E poi, come in tutti i film di Guadagnino, vi è sottotraccia un’attenzione verso i luoghi e le musiche, evocative di Trent Reznor e Atticus Ross, che danno al film il sapore di una ballata romantica vecchio stile. (Michele Gottardi)
Voto: 7
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Regia: Jeanne-Pierre e Luc Dardenne
Cast: Mbundu Joely, Pablo Schils, Alban Ukaj
Durata: 80’

Il film "Tori e Lokita"
Una fratellanza nata su un barcone di migranti. Lokita è una ragazza, Tori un bambino. Non hanno un legame di sangue ma qualcosa di più forte che li ha uniti: la disperazione e la voglia di riscatto ora che hanno trovato riparo in Belgio.
Qui sono costretti a spacciare droga per ripagare i trafficanti che li hanno portati in Europa e inviare un po’ di denaro alla vera famiglia di Lokita che, intanto, non può ottenere i documenti di soggiorno perché le leggi dello Stato non riconoscono il suo legame con Tori.
Le loro strade sono destinate a dividersi se non fosse per la tenacia del piccolo. Il cinema dei fratelli Dardenne, con il tempo, è diventato ancora più asciutto, come se l’umanità che da sempre ne è il cuore spingesse verso una universalità di sguardo e di contenuti capaci di arrivare a tutti.
“Tori e Lokita” non ha l’asprezza dei primi film dei Dardenne; può, persino, lambire la banalità nel mettere in scena una delle tante storie di sopraffazione e di sfruttamento, se non fosse che la banalità affonda le radici nella realtà.
E, forse, è proprio questo che i cineasti belgi vogliono affermare: un invito a non distogliere mai lo sguardo da questi drammi e a non voltarsi dall’altra parte (emblematica la sequenza degli automobilisti che ignorano la richiesta di aiuto di Lokita). Anche nella ripetitività di certi movimenti e nella cantilena che i due “fratelli” hanno imparato sbarcati in Italia (Alla fiera dell’Est), si coglie il senso delle tante piccole tragedie che si perpetuano giorno dopo giorno e che i Dardenne non vogliono smettere di raccontare. (Marco Contino)
Voto: 6,5
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DIABOLIK 2 – GINKO ALL’ATTACCO
Regia: Antonio e Marco Manetti
Cast Giacomo Gianniotti, Miriam Leone, Valerio Mastandrea, Monica Bellucci
Durata: 111’
Tornano le avventure del Re del Terrore anche se cambia il protagonista, da Luca Marinelli a Giacomo Gianniotti, l’Andrew DeLuca in “Grey's Anatomy”, forse più vicino all’icona del Diabolik del fumetto.
In questo secondo capitolo, pare ve ne sarà un terzo e forse ultimo, Diabolik ed Eva Kant sembrano avere un piano apparentemente perfetto per impadronirsi di una serie di celebri gioielli.
Ma l’astuto ispettore Ginko sta tendendo una trappola, che mette a dura prova il loro legame. Tradita dal suo uomo, Eva decide di vendicarsi, proponendo all'ispettore di collaborare alla cattura di Diabolik. Una decisione difficile per Ginko che deve anche affrontare l'arrivo di Altea, duchessa di Vallenberg, eterna fidanzata dell’ispettore, nobildonna stravagante e anticonvenzionale.
I Manetti Bros rilanciano le figure attorno a Diabolik, da Eva Kant, poco credibile nei panni dell’amante tradita ma sempre affascinante, a Ginko, ancora più bonario nei tratti alla Maigret.
Il linguaggio dei Manetti non è così eccessivo come nel primo episodio, come se rimanessero a metà del guado, tra cinema e fumetto, suggerendo piuttosto che esplicitando, in una resa che è assai meno pop di quanto non ci si aspetti, pur non giungendo a essere un cinema intellettuale.
C’è più plot, ma meno ambiente, anche se Trieste è sempre Clerville, come se scegliendo una maggior attenzione filologica verso gli eroi delle sorelle Giussani, si perda una certa aria evocativa che il primo film pure aveva. Vedibile, ma senza grandi aspettative. (Michele Gottardi)
Voto: 6
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Regia: Alberto Gottardo – Francesca Sironi
Durata: 75’

Il film "Fortuna Granda"
Due ragazzi - appena diplomati all’istituto professionale, con un futuro (che è già presente) di pescatori di vongole davanti - chiacchierano su un divano in un garage, pronti a salire in barca alla 4.30 del mattino.
In quella lingua che è il Goranto che ha i suoni della terra, del fiume e del mare, riflettono sulla loro vita. “È brutto lavorare di giorno, è meglio di notte”, dicono. “Perché arrivi a casa la mattina e sei a posto. Invece di giorno perdi la giornata”.
E poi, con quel pragmatismo che già riempie loro le tasche, aggiungono: “Guarda, io penso che, andare a vongole, nascere a Goro, non potevamo avere fortuna più grande. Guarda che ce n’è pochi in Italia con una fortuna del genere. Comunque, la sai una cosa che non mi piace tanto? Pensare che, fino a quando avrò 72,74 anni - e io adesso ne ho 17 - tutte le mattine dovrò fare quella cosa lì”.
Questo dialogo, così sincero, sembra condensare tutto il senso del documentario diretto da Alberto Gottardo e Francesca Sironi, “Fortuna Granda”, in sala grazie alla casa di distribuzione padovana Trent Film, vincitore del Premio Solinas per il miglior documentario per il Cinema 2020, che racconta la realtà di Goro, in fondo al Delta del Po.
I quattro ragazzi (Alessandro, Gioele, Matteo e Samuel) al centro del film sono tutti “nati nell’acqua”: sono saliti per la prima volta sulla barca del nonno a cinque anni, imparando a pescare vongole, cannolicchi, beverasse, cape cuore, cozze. Ora frequentano anche un istituto professionale di pesca (per avere un pezzo di carta in mano, non si sa mai) ma l’acqua li chiama da sempre.
E quel lavoro ha sì il fascino e la passione dell’ineluttabilità (non saprebbero fare altro), ma, in certi momenti sembra stare loro così stretto, con quel fondo di inconsapevole angoscia nella proiezione di dover alzarsi alle 4 di mattina per i prossimi 60 anni.
Da un lato c’è, dunque, la pesca, la sua tradizione, una arteria di famiglia che arriva dritta al cuore. Dall’altro c’è una scuola che fatica a trattenere e intrattenere questi ragazzi per molti dei quali la frequentazione è rarefatta, l’arroganza con i professori una difesa, il disinteresse una dichiarazione di saper già fare tutto senza bisogno di insegnamenti.
“Fortuna grande” diventa, così, non solo il ritratto affascinante di un lavoro fuori dal tempo, in luoghi immersi nella natura che sembrano così remoti dalla città, ma anche una riflessione sulla dispersione scolastica e sul tentativo degli insegnanti (ben consapevoli di poter contribuire poco all’interno di questa realtà così marchiata dalla tradizione) di far comprendere quanto possa essere importante avviare e concludere un percorso scolastico.
Un confronto che spesso non è semplice (anzi, qualche volta, trascende) e, anzi, è pieno di contraddizioni di cui i ragazzi sono l’incarnazione più vera: desiderosi di imparare il mestiere ma senza perdere tempo sui banchi. Il mondo di “Fortuna Granda” è chiuso, circondato dall’acqua: i protagonisti si muovono cercando un proprio spazio dentro un destino che sembra già determinato.
Loro stessi sono già un po’ fuori dal tempo: uno di loro ascolta Adriano Celentano, un altro sogna di lavorare con i motori, montando e rimontando i pezzi del proprio scooter. Ma la mattina non può fare altro che aspettare sul molo, con le sue galosce che arrivano alla vita (ma sono da sempre anche dentro la sua testa): lo aspettano le vongole, quell’unica rotta che Goro ha insegnato a questi ragazzi. (Marco Contino)
Voto: 6,5
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