Cara Maria,
ti scrivo di getto, ho ancora in mano la memoria per la separazione depositata da mio marito in Tribunale. Trent’anni insieme cancellati da quel fiume di odio che leggo, come anestetizzata. Per lui non sono stata una buona moglie, non sono stata una buona madre, non sono stata niente, anzi sono stata una donnaccia. Non lo dice apertamente, ma tra le righe quello è il concetto che vuole far passare. Una che se ne è andata di casa per fare la bella vita e divertirsi.
Mi sono innamorata di lui che ero solo una ragazzina, arrivata a Milano dalla Calabria con una valigia carica di sogni. Già stare in una grande città li esaudiva in parte. Il mondo mi sembrava afferrabile.
Mi sono impegnata tanto a studiare, iscritta alla facoltà di Legge, alla Statale, e proprio lì ho conosciuto Edoardo. Figlio di una solida famiglia borghese meneghina, uno studioso, ambizioso, pieno di sé. Ma intelligente, molto intelligente. Me ne sono innamorata subito e all’inizio quel suo trattarmi come una bambola di porcellana, sempre un’attenzione e un riguardo, mi è sembrata una dote meravigliosa. Certo era geloso, voleva sempre sapere dove fossi e non gli piaceva se uscivo con i miei colleghi di facoltà. Ma non ci badavo. Presa dall’amore per lui, ma anche dall’impegno nello studio per realizzare finalmente tutti i miei sogni.
Lui avrebbe voluto che io facessi il magistrato, o anche la carriera accademica, come stava iniziando a fare lui. Io invece ambivo sì a una toga, ma da avvocato, per entrare in uno studio che si occupasse di diritto internazionale, di controversie sulla concorrenza, di arbitrato. Venivo da un piccolissimo centro affacciato sul meraviglioso mare della Calabria e da ragazzina già mi vedevo inserita nel mondo, in un grande studio che mi permettesse di viaggiare e di realizzarmi. Non capivo sinceramente come questo potesse inquinare la mia sfera amorosa. E anche la maternità. Vedevo noi due, con i nostri sogni, le nostre carriere parallele e la costruzione di una famiglia in cui ci saremmo impegnati entrambi.
Lui evidentemente la pensava diversamente. Vedeva lui sulla rampa di lancia della professione ed io a oliare la sua catapulta. Dietro le quinte a fare la moglie e la madre con un lavoretto che mi permettesse una certa indipendenza economica per non pesare troppo su di lui. Ma questo l’ ho capito troppo tardi.
Ho fatto carriera, sono un’avvocatessa di successo, inserita in una firm di respiro europeo e guadagno molto bene. Ho anche cresciuto un figlio in questi anni, io che secondo lui sono una cattiva madre. Un figlio che quando ho preso le valige e me ne sono andata di casa, ha preso le parti del padre. Non so se ho fatto bene in tutti questi anni a nascondere quello che stavo passando. Quante volte tornando da un viaggio di lavoro la sera tardi mi sono sentita dare della poco di buono. Una puttana che girava il mondo con i suoi amanti. «Per questo - mi diceva lui - anche io ho un’amante». E lui ce la aveva veramente. Mentre io no. Ho sempre pensato “cambierà”, “capirà”. Ma sono passati 30 anni e non è mai cambiato, anzi. Qualsiasi cosa succedesse era sempre colpa mia, anche quando si perdeva il passaporto o le chiavi di casa. Ero stata io, per umiliarlo.
Mi ha insultato sul fisico, sul mio lavoro, per le mie amicizie. Ogni volta che andavamo a una cena mi impediva di parlare se non per dire poche parole formali. «Vuoi sempre prenderti la scena», mi rimbrottava. E io, stupidamente, ubbidivo, cercando di farmi piccola piccola e di intrattenere conversazioni inutili, possibilmente a bassa voce. E comunque non era mai abbastanza. Comunque venivo rimproverata per non averlo supportato, messo in luce, fatto brillare.
Quando un giorno ho trovato nella mia macchina un preservativo, segnale chiaro di una sua relazione o di una sua frequentazione a pagamento, ho deciso che non potevo restare. Dovevo riprendermi la mia vita e la mia dignità. Sono andata via io di casa per evitare altra violenza, altro conflitto. Ma non è bastato. Lui mi vorrebbe annientare, distruggere, cancellare anche come madre. E quel che mi fa più soffrire è che sta mettendo di mezzo nostro figlio.
Aiuto
Lucia
Cara Lucia,
la violenza ha tante forme, alcune evidenti, «fisiche», altre subdole, che si configurano come molestie morali. Il problema di tuo marito è quello di tanti uomini allevati in una società patriarcale dove i ruoli sono rigidamente assegnati. E in una società che si evolve, con donne che si conquistano, anche se con fatica, il loro spazio e la loro indipendenza, i maschi faticano a stare al passo e sfogano le loro frustrazioni personali, ma anche di genere, su di noi. Su compagne che con generosità voglio condividere un percorso di vita fianco a fianco. Mentre loro ci immaginano sempre come gregarie, come quelle che devono passar loro la borraccia, spronarli, aprire la strada, oliare le loro ruote arrugginite.
Una violenza quotidiana anche senza manifestazioni «fisiche». Sono calci e pugni alla nostra autostima, alla nostra anima. Che fanno male, che mirano comunque a «annientarci».
In molti casi poi l’escalation dalle molestie morali alla violenza fisica è annunciata. Quindi non bisogna mai tollerarle. Andarsene, come hai fatto tu. Ma anche essere molto chiare con i propri figli, spiegargli cosa è successo e cosa sta succedendo, non solo per evitare l’alienazione da sé, ma anche per educarli, per fargli capire su quali basi deve nascere un rapporto d’amore e con quale senso di responsabilità e condivisione farlo crescere.