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Camminando a Palermo
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Camminando a Palermo

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Venite a Palermo? Io ci sono stata con Emiliano Morreale che conosce bene le strade, anche quelle del quartiere Bonagia che si chiamano via del Visone, della Folaga e dell’Airone. Del resto era lì che andava da ragazzo al cinema Lubitsch, il regista del lusso e della grazia. Se chiami così una sala in mezzo ai palazzoni non finiti, ai vicoli ciechi è perché vedi un mondo dentro cui vorresti abitare o per meglio dire: arredi un mondo dove andare a stare, pazienza se fuori si spara e se in sala non viene nessuno. Che poi qualcuno alla fine arriva, invece. Saranno matti visionari, saranno ragazzi allampanati che scapperanno da lì per non tornare più o saranno gli altri, quelli destinati a restare e a recriminare per sempre, a rimpiangere. 
Ci sono andata, a Palermo, camminando dentro un suo libro che è fatto di tante storie, tutte di cinema e di vita successa, di ferocia e di illusioni: si chiama L’ultima innocenza, lo pubblica Sellerio. La storia con cui inizia è quella di cui vi parlo qui: non perché le altre non siano altrettanto incredibili, aggettivo da intendersi in senso letterale. Difficile credere che siano davvero successe, che fossero lì e nessuno le avesse ancora raccolte, dispiegate, offerte a noi. Nel primo racconto, La terra dei sogni, Morreale parla (anche) di Giuseppe Greco e di suo padre Michele, il Papa di Cosa Nostra. Mentre il padre disponeva una delle più sanguinose carneficine di mafia, Giuseppe, il figlio, scriveva e produceva Crema, cioccolata e... paprika in cui si era riservato anche una parte da attore insieme a Renzo Montagnani, Barbara Bouchet, Franco e Ciccio. Michele difatti sentiva di essere un artista. “Nei mesi in cui don Michele, fingendosi arbitro fra le cosche, vendeva uno a uno i propri alleati a Riina che li faceva strangolare alla fine di gioviali banchetti e abbattere coi kalashnikov sotto casa dell’amante, suo figlio accoglieva le stelle della commedia sexy e faceva il cinema, felice”. 
La storia del maxiprocesso, raccontata fino all’usura, fino a estinguere ogni stupore diventa qui (anche: sempre anche) una pagina di cinema. Mentre il Papa va all’ergastolo il figlio diventa regista. Entrano in scena personaggi come Enzo Castagna, “proprietario di un’impresa di pompe funebri che gestiva con metodi disinvolti ed efficaci le comparse di Palermo”. Il film, diretto con lo pseudonimo di Giorgio Castellani, s’intitola Vite perdute: esce a febbraio del ’92. A marzo viene ucciso Salvo Lima, in maggio la strage di Capaci, a luglio via D’Amelio. Greco figlio, lietamente, sta sul set. Medita un film sulla vita di suo padre nel ruolo del Padrino, lo gira: I Grimaldi. «Io credo nella reincarnazione. Mio padre paga colpe non sue e vive la vita di un altro». C’è qualcosa, in questa estraneità fra padre e figlio, in questa vana reciproca ansia di trovare nell’uno qualcosa dell’altro, che racconta quegli anni più di qualunque cronaca. Poi inizia la seconda storia, quella di Michal Waszynski: forse un genio, certo un impostore. Del resto: “Tutti abbiamo una controfigura che mandiamo nel mondo e che è il nostro unico essere”. Tutti.