Il contrario di rito è estemporaneità. Reazione immediata a uno stimolo, post, tweet. È morto qualcuno? Butto giù due frasi a effetto. È una pratica che potremmo chiamare cordoglio social. Anche senza giudicare la mitomania di chi (quasi tutti) ricorda in quelle due frasi (talvolta corredate da fotografia) il defunto o la defunta come grande estimatore di lui medesimo – quella volta che disse del mio libro che si trattava di un capolavoro, quando al mio matrimonio si versò la sangria sullo sparato, il giorno in cui mi chiese consiglio perché ancora incerto se fondare Facebook… cose così – il cordoglio social è comunque un ossimoro, perché, come dicevamo, è estemporaneo. Un rutto, con rispetto parlando. Perché la morte trovi nelle nostre vite la posizione che merita, o almeno quella che ci permette di sopportarla, serve tempo. Elaborazione, si dice in psicoanalisi. Liturgia, secondo la tradizione, non solo religiosa. Una liturgia che, gesto dopo gesto, si incarica di restituire pace ai sopravvissuti e, per chi crede a un’aldilà ma anche soltanto a una specie di energia cosmica vorticante, anche ai morti. Garantendo loro pensiero, preghiere, attenzione, cura, creiamo una specie di staffetta sentimentale: fin quando vivrà l’ultimo che lo ha conosciuto/amato, o chiunque sia in grado di raccogliere la sua eredità di affetti, quel morto non sarà soltanto cenere alla cenere. Alcuni cimiteri sono un teatro perfetto per assolvere a questa funzione. Non certo gli orrorifici e immensi cimiteri delle città, ma certi cimiteri affacciati sul mare, alla periferia di graziosi paeselli. E senza dubbio tutti quelli nei quali sono sepolti i soldati americani, caduti durante la Seconda guerra mondiale.
Dobbiamo ammettere che sulla memoria gli americani sono migliori di noi, forse anche perché hanno meno cose da tenere a mente, meno passato da custodire. Comunque sia quei campi ordinati, geometrici, con le croci bianche tutte uguali piantate a distanza regolare, i prati verdi, sono luoghi nei quali il rispetto e il silenzio favoriscono la concentrazione, e quindi il lungo addio. Ce n’è uno sulla scogliera che sovrasta Omaha Beach, una delle cinque spiagge dove gli americani sbarcarono il 6 giugno 1944. Si chiama Colleville-sur-Mer, e accoglie le tombe di 9.387 soldati. Tra questi, quattro donne e 307 corpi alla cui identità nessuno è riuscito a risalire. Soltanto durante il cosiddetto sbarco in Normandia, dal quale sarebbe partita la marcia degli alleati che avrebbe portato alla liberazione dell’Europa e la sconfitta dell’esercito nazista, morirono 4.400 soldati. In poche ore. Un’ecatombe, una specie di sacrificio rituale al dio della guerra. Steven Spielberg ha girato quella scena in Salvate il soldato Ryan in un modo così realistico e straziante da renderla indimenticabile. Eppure la dimentichiamo, sempre. Dando per scontate le nostre belle democrazie, come fossero l’aria o il sole. Ma non lo sono, e l’unico modo perché non finiscano calpestate dal prepotente di turno e per evitare che altre decine di migliaia di ragazzi vengano ammazzati in un atroce tiro al piattello, è ricordare.
Ricordare non è un attimo, un tweet, il kairos come dicevano i greci. È Cronos, un tempo empirico e in movimento. È quello che fanno i soldati francesi ogni anno, il giorno dell’anniversario dello sbarco. Raccolgono la sabbia di Omaha Beach, e la portano nell’ordinato cimitero di Colleville-sur-Mer. Qui, piegati sulle ginocchia, la strofinano su ognuna delle 9.387 iscrizioni sulla pietra, corrispondenti ai 9.387 soldati caduti sulla terra francese. Fino a quando quei nomi, quelle date, risplendono di una luce dorata. Questo è un rituale, questa è la morte. Non battere due sciocchezze sulla tastiera, ma costringere il proprio corpo a inginocchiarsi, e ritrovarsi alla fine le mani sporche di sabbia.