Lorenzo Zurzolo, attore di successo con 15 anni di carriera e 22 di età, fa parte di una generazione di giovani attori che si stanno prendendo spazio, riconoscimenti e pubblico. Con il collettivo Grams* ho scritto la serie Baby, prodotta da Netflix e Fabula Pictures, in cui Lorenzo ha interpretato il personaggio di Niccolò. Ora è uno dei protagonisti di EO, film vincitore del Premio della Giuria al 75° Festival di Cannes, diretto da Jerzy Skolimowski e candidato agli Oscar 2023 come Miglior film straniero (dove recita con Isabelle Huppert). Ha un ruolo importante in La Storia, serie Rai tratta dal romanzo di Elsa Morante, realizzata in coproduzione con Picomedia, Thalie Images e Rai Fiction, regia di Francesca Archibugi, con Mastandrea, Germano e Trinca. Lo intervisto mentre è su un set importante, prima che voli a L.A. per la serata più famosa del cinema.

Perché siamo così curiosi della vita di voi attori?
«Il pubblico prova un’amicizia per te anche se ha visto una sola interpretazione e si crea aspettative. In chat mi arrivano da parte di sconosciuti richieste assurde, che neanche la mia partner... Al desk del controllo passaporti all’aeroporto di Punta Cana nella Repubblica Dominicana, in vacanza, la hostess mi squadra e chiede: “¿Eres Niccolo, el actor de Baby?”.
La popolarità impedisce di scindere vita e lavoro. Dov’è il confine tra chi sei e chi rappresenti?
«Per proteggermi mi circondo di chi mi conosce per ciò che sono e non ciò che rappresento. Allo stesso tempo nei personaggi cerco parti di me, anche in quelli diversi all’apparenza. Abbiamo più io, molte facce. Ricerco dentro i miei lati nascosti e li espando, lasciando che prendano il sopravvento».
“Do I contradict myself? Very well, then I contradict myself, I am large, I contain multitudes”, diceva Whitman. Ma come fai a spegnere la tua coscienza e accenderne un’altra?
«Io vivo le emozioni e con quelle più forti, come la tristezza, allo “stop” non mi si blocca la fuoriuscita di sentimenti. Ho strascichi più o meno lunghi. Nel nostro lavoro però c’è anche l’ingegno. Gandolfini, in una scena de I Soprano, per camminare andando incontro a una vendetta si mette un sassolino nella scarpa per avere il fastidio che gli occorreva per simulare il nervosismo».
I tuoi personaggi di Baby e Prisma parlano di disagio giovanile. Niccolò, bullo dei Parioli, esercita il suo potere sugli altri. Daniele, dalle case popolari di Latina, rappresenta una mascolinità che non gli appartiene.
«Sono vittime dell’ambiente che li forza a soddisfare un’etichetta e lottano, sbagliano, per capire chi sono. Un problema della mia generazione è la difficoltà nel trovare un percorso che porti alla felicità. In un mondo iperstimolato, si rischia di fare confusione sulle passioni. In passato il processo di individualizzazione arrivava prima, ora è come se non avvenisse mai».

Stare sul set è per te una schermaglia contro l’iperstimolazione e la dipendenza dai social?
«Il set è luogo d’evasione, una no-phone zone di nove ore senza nomofobia e distrazioni. Mi dà un benessere psicofisico, tralasciando il fatto che bevo mille caffè e fumo mille sigarette. Senza il set faccio fatica a non controllare le notifiche. Ma non voglio dare l’idea di essere scontento: è grazie alle piattaforme che i giovani attori sono diventati popolari in Italia, perché esiste una costellazione di ruoli interessanti. Un racconto veritiero e tridimensionale degli adolescenti. Fino a qualche anno fa finivi a fare il “figlio di” in una fiction Rai. Era più dura emergere».
Hai mai pensato, tipo Sliding Doors, che tutto ciò che ti è accaduto poteva non avvenire?
«Rifacessi il provino per Niccolò di Baby magari il vento tirerebbe da un’altra parte. Ci vuole anche fortuna. Ma non ho ansie da competizione, se incontro un coetaneo a un provino ci scambiamo consigli. Basta prepararsi al meglio e sfruttare le occasioni».

In Gallo Cedrone il personaggio di Verdone fa commenti sessisti, catcalling e bodyshaming. L’intento è prendere in giro chi offende, ma trattando i maschi tossici come fenomeni non si rischia di avallarne i comportamenti?
«È difficile, ma non rifiuterei un ruolo perché eticamente non condivisibile, altrimenti dovrei escludere a priori gli antagonisti. Il cinema più che essere educativo deve rappresentare la realtà, senza dare giudizi. Le coordinate con le quali scelgo un progetto sono qualità, solidità di chi vi partecipa e verità dei personaggi».
Grazie a viaggi low cost e web per la nostra generazione diminuisce l’idea di patria in virtù dell’internazionalismo. Ti senti un Odisseo che vuole tornare al suo centro o un viandante la cui casa è nella meta successiva?
«Viaggio tanto e mi piace. Ma all’estero mi mancano le cose positive dell’Italia, quel senso di comunità che ho faticato a trovare in Polonia, dove ho girato EO, o in Inghilterra. Magari è solo il “Ciao, come stai?” del tabaccaio di Testaccio o un’amicizia di quartiere, ma quel tempo investito crea una rete che io chiamo “casa”».

Calvino diceva che una delle qualità più importanti per il nuovo millennio è la memoria. Considerando che stiamo delegando la memoria alle macchine, vedi ChatGPT, potremmo dire che se il Last Man on Earth fosse un attore, sarebbe una salvezza perché potrebbe riscrivere i testi di Shakespeare o Leopardi custoditi a memoria?
«Potrebbe essere, ma se fossi io quell’ultimo uomo non sarei una garanzia (ride, ndr). Il fatto è che imparo a memoria in fretta, ma scordo altrettanto in fretta. Non so perché, ricordo però tutte le definizioni delle figure retoriche. Chiedimene una».
La metonimia.
«È il trasferimento del significato di una parola a un’altra, come la causa per l’effetto, il contenente per il contenuto, tipo “bere un bicchiere”».
A scuola, come andavi?
«Al Tacito di Roma fino al quarto i professori erano gentili, mi facevano le interrogazioni programmate. Ho fatto 5 mesi in Inghilterra e conosciuto così il modello scolastico inglese, più pratico: penso sia meglio il nostro perché la scuola non deve prepararti al lavoro, ma formarti come persona. Il quinto fu più travagliato per l’intensificarsi delle esperienze lavorative, la preside mi disse: “Quest’anno più Manzoni e meno teatro!”. Passai alle private».
Per esperienza so che nelle serie il set è vincolato alla sceneggiatura. Qual è il tuo rapporto con le regole?
«Aiutano a non sbagliare e non soffocano la creatività, ma all’interno di esse puoi trovare la libertà che cerchi. Recitare con Sergio Castellitto in Una famiglia Perfetta, a 13 anni, fu una palestra: era uno spirito libero che faceva la stessa scena in maniera diversa. Le parti che finora ho improvvisato di più sono le più belle».

Che differenza c’è tra un film al cinema o in piattaforma?
«Al cinema sei teletrasportato in un altro universo, con il telefonino o il pc è poco più che un passatempo. Ma non credo che il cinema stia morendo, si diceva lo stesso con l’avvento della tv».
Io sono uno scrittore e tu un attore. Ti andrebbe di creare un’ipotetica puntata di Call My Agent - Italia (Sky) basata su di te? Servirebbe che mi dicessi un tuo difetto.
«Sono insicuro, soffro un po’ della sindrome dell’impostore e sono autocritico. Quando finisco un take, se il regista non dice nulla vado a chiedere se ci sono problemi. E se dice no, mi stranisco: “Ci dev’essere qualcosa che non va. Possiamo rifarla?”».
Stacco. Alla première, dopo un set faticoso per i tentennamenti di Lorenzo, il protagonista, lui si riguarda per la prima volta e mordendosi le labbra dal nervosismo, sussurra al regista: “Sei sicuro che non possiamo rifarle?”
Ride.
Giacomo Mazzariol, 26 anni, è uno scrittore e sceneggiatore italiano.
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