Songstress non è certo la più musicale delle parole. Ma descrive bene ciò che Maya Hawke fa nella vita: cantare e recitare. Oltre a portare in giro una personalità naturalmente eccentrica che è figlia sia della fortuna che della sfortuna: la buona sorte d’essere nata dall’amore (poi finito) tra due stelle del cinema, Uma Thurman ed Ethan Hawke. E la cattiva ventura d’aver combattuto con un disturbo dell’apprendimento che ha reso il suo percorso di crescita a tratti tortuoso ma personale e riuscito, specialmente se letto all’incontrario, dalla donna che è oggi fino alle origini. «Pochi giorni fa ho incontrato una ragazza che mi ha detto: ma tu sei Maya? Quella che alle medie passava il tempo a disegnare nascosta sotto lo scivolo mentre gli altri giocavano? Sono sempre stata un po’ off, mettiamola così».
Ventiquattro anni, attrice della miniserie Piccole Donne e Stranger Things (sarà anche in Asteroid City di Wes Anderson e in The Kill Room, accanto a sua madre), il prossimo 25 febbraio porterà dal vivo alla Santeria Toscana 31 di Milano i brani di Moss, il suo secondo album pieno di rievocazioni adolescenziali, atmosfere languide e un videoclip di lancio, Thérèse, che è un atto d’accusa verso il controllo nei confronti dell’intimo femminile: la notte, un bosco, un’orgia di giovani corpi senza colpa e l’irruzione della polizia che ammanetta le ragazze e le fa marciare tra gli alberi, a seno nudo, con Maya – crudissima – protagonista in primo piano. «Volevo raccontare di come l’espressività intima di molte giovani, me inclusa, sia interrotta precocemente dalla carica sessuale proiettata dalla società», spiega con la sua parlata scattante e rapidissima, «di come prima ancora che tu abbia imparato a masturbarti ci sia qualcuno che ti dice di sedere composta o coprire un seno non ancora fiorito. Di come sei libera di correre nuda sulla spiaggia e poi d’un tratto ti ritrovi con qualcosa da nascondere, ancor prima che tu abbia sviluppato impulsi o desideri. Quel video mi ha permesso di tornare indietro, vedere tutto dal punto di vista di un’adulta, e riprendermi la mia sessualità».
Ha mai partecipato a riti d’iniziazione?
«Sì, tanti. E alcuni davvero folli, quasi da strega, come danzare di fronte a un falò bruciando le mie vecchie fotografie. Poi ho caricato di energia dei cristalli, tenendoli sotto la luna. Così come ho meditato nei boschi e pregato Dio accendendo candele in chiesa. Ho provato un po’ di tutto».
Per cercare cosa?
«Connessione, attualizzazione e cambiamento. E per creare nuovi marcatori di tempo e di passaggio esistenziale, che da ragazzi sono sanciti dai cicli scolastici mentre poi, nella decade confusa dei vent’anni, se non hai figli o non ti sposi o non vai al college come accaduto a me, d’improvviso vengono a mancare. Ad ogni primo dell’anno, faccio la lista delle cose che voglio ottenere e lasciar andare e poi brucio i fogli nel fuoco, per rendere i propositi realtà. Non restare fermi, nella vita, è salutare».
Chi sono i suoi nonni?
«Il nonno materno si chiama Robert Thurman ed era un monaco, mentre ora è un accademico che insegna buddismo e scrive saggi sulla tradizione tibetana. Nonna invece era una supermodella, è laureata in Psicoanalisi ed entrambi vivono a Woodstock, in una casa di campagna dove ho passato tutti i weekend e le estati, da neonata fino a oggi, tanto da considerarmi a tutti gli effetti una Woodstock girl».
E cosa fanno lassù?
«Esplorano la via dell’illuminazione e gestiscono la charity Tibet House, per promuovere la liberazione del popolo del Dalai Lama dal giogo cinese. In generale, li definirei dei badass, dei tipi molto tosti».
Mentre lei, a Woodstock, come trascorre il tempo?
«Cammino nei boschi e bevo sidro di mele con whisky, dipingo acquerelli e cucino. Tutte le cose che si fanno in una stupenda casa tra le montagne, a due ore di auto da New York».
L’hanno indottrinata?
«In nessun modo. Neppure papà, che ha un background marcatamente cristiano. Ho avuto il privilegio di crescere in una comunità dove la fluidità è permessa, in tutti i campi, e non ho particolari affiliazioni religiose. Ma ne resto curiosa e la religione m’interessa come strumento per affinare il senso di chi sono e cosa faccio qui».
Elabora pensieri articolati in modo piuttosto veloce. Ha mai misurato il suo quoziente intellettivo?
«Da ragazzina, per entrare nel sistema delle scuole private newyorkesi e capire quale fosse il mio problema, visto che faticavo a leggere e scrivere. E così hanno scoperto che soffro di una forma di dislessia piuttosto grave: per completare i test mio fratello Levon ci impiegava tre ore mentre io più di sei, in questo ridicolo sistema di valutazione standardizzato che impiegano gli istituti americani. Se ci vedesse assieme, in una conversazione, appariremmo intelligenti allo stesso modo. Ma il mio cervello, evidentemente, funziona in modo un po’ singolare».
Ha faticato tanto, a scuola?
«Un po’ sì, ne ho dovute cambiare diverse. Ho iniziato a Brearley, un istituto femminile che ho lasciato per via delle mie difficoltà. Poi mi hanno iscritta a Windward, che è specializzata in bambini con problemi linguistici e d’apprendimento, ma anche lì non è andata bene. Quindi una scuola steineriana: ma anche in quel caso, alla fine sono stata costretta a cambiare».
Con gli uomini nessuna esperienza dolorosa, in quegli anni?
«Tutte quante le abbiamo avute. Penso che ben poche ragazze siano uscite dalle scuole superiori senza aver subito un piccolo trauma, in quel senso…».
Si è mai considerata una “weirdo”, una “stramba”?
«Sì, per tutta la mia vita, e mi considero tale anche adesso. Un dolce, e generoso, strambo essere umano. Un individuo, mettiamola così, che si muove al ritmo delle proprie percussioni personali».
Cosa fa di strano in un giorno normale?
«Oggi, per esempio, mi trovavo in un ascensore strapieno di gente e ho iniziato a cantare ad alta voce la sigla del telefilm White Lotus, tappandomi ritmicamente la bocca, un po’ come fanno gli indiani per il richiamo di guerra. Provi a googlare White Lotus Theme Music e sentirà di cosa si tratta. È dalle scuole medie, che mi etichettano come eccentrica».
Lo era anche per i membri della sua famiglia?
«Ma no, si figuri. La mia famiglia è fatta d’artisti e bohémien, e di propriamente “normale” non c’è nessuno».
Quando ho incontrato suo padre Ethan Hawke a New York, tempo fa, si è presentato a colazione con un immenso volto di indiano stampato sulla camicia.
«Probabilmente si trattava di Geronimo. Papà ha fatto molte ricerche sulla vita del capo indiano e sulle tribù dei nativi americani. Ha anche scritto un graphic novel che ripercorre la storia di tutte le guerre combattute dagli Apache, un’opera stupenda che si chiama Indeh. È una delle sue grandi passioni».
Durante quella colazione continuava a rispondere al telefono perché la sua compagna gli ricordava di andare all’ufficio postale e a prendere i bambini a scuola. Una scena curiosa, a cospetto di un divo.
«È esattamente ciò che ci rende tutti uguali: le responsabilità, l’amore e l’affidabilità personale. Viviamo tutti le stesse vite, da quel punto di vista».
Ha mai vissuto al Chelsea Hotel?
«Per 5 anni, quando i miei genitori si sono lasciati e papà si è trasferito lì».
E cosa ricorda?
«Che in camera nostra, nel retro dell’armadio, c’era l’ingresso di un ascensore fuori servizio da decenni, lo stesso dove Leonard Cohen ha scritto le parole di Chelsea Hotel #2 e ha incontrato Janis Joplin. Io ci andavo a giocare con le bambole e nel silenzio sentivo risuonare la sua anima, insieme a quelle dei tanti fantasmi che popolano l’albergo. Oppure passavo il tempo nella lobby, dove avevo allestito un banchetto e vendevo limonate a chi entrava e usciva. Giorni davvero indimenticabili, di sogni a occhi aperti».
Cosa sognava?
«Chiudevo gli occhi e sognavo di avere il dono della telecinesi, come la protagonista di Matilda. E pregavo dio di trasformarmi in una sirena per sentirmi finalmente libera, e avere accesso a quel piano dell’esistenza magico, e infinito, che è l’oceano».
Ha intitolato il suo album Moss, che significa “muschio”, una superficie scivolosa e pericolosa. È questa l’intenzione dietro la scelta?
«No. Immaginavo di più le foreste di muschio giapponesi, così simili a certi luoghi che si trovano intorno a Woodstock. Il muschio è in grado di crescere sulle cose morte, su una pietra rotolante così come su un tronco caduto. Allo stesso modo, il disco è stato scritto durante la pandemia, ed è cresciuto su una versione pietrificata di me stessa. Ecco perché s’intitola così».
È il contrario di una certa mitologia del rock, che obbliga a vivere ogni giorno come fosse l’ultimo.
«Un sentire che credo estraneo alla mia generazione. Per anni ha vinto l’idea che più stessi sveglio la notte, in più casini ti ficcassi, e più figo eri. Ora è cambiato tutto: prima ti svegli, più muovi il tuo corpo, più apprezzi la natura e ti prendi cura di te, e più profondamente vivi la vita. Io, se potessi, vorrei vivere fino a 120 anni. Sana e pulita. Nei boschi».
Thérèse, il singolo che traina l’album, è ispirato all’omonimo quadro di Balthus custodito al MoMA. Perché l’erotismo di quell’immagine di adolescente l’ha colpita così tanto?
«Da piccola andavo al MoMA quasi tutte le settimane, insieme ai miei genitori, e adoravo quel dipinto. Non so dire se a colpirmi fosse stato l’erotismo, ai tempi non lo percepivo. So solo che vedere quella ragazzina incurante del fatto che le si vedessero le mutandine bianche, che si notasse la goccia di sangue che macchiava il cotone candido, completamente perduta nella sua immaginazione, mi turbava. Semplicemente, volevo essere disinibita e sicura come lei. Quando poi ho saputo delle controversie legate al quadro, le accuse d’istigazione alla pedofilia mosse all’opera e all’artista, mi si è spezzato il cuore».
Essere protagonista del video di Thérèse fa parte della sua ricerca sull’identità femminile?
«Non ho mai pensato neppure un secondo di non mettere in gioco il mio corpo nudo, in quelle immagini. Volevo essere una creatura sessuale senza essere sessualizzata dallo sguardo altrui. Volevo affermare che se espongo il seno non significa che ti sto consegnando il mio erotismo. Quello, in ogni caso, resta mio».
Che senso ha avuto per lei posare come modella per campagne pubblicitarie di lingerie?
«È il rovescio della stessa medaglia: la possibilità d’essere volontariamente sessualizzata con sicurezza e padronanza. Se desidero essere attraente, so che lo posso fare. Se voglio sentirmi un dipinto, lo posso fare. Così come essere un ragazzaccio o una gattina sexy. Ho tante anime e voglio vivere tutte le occasioni utili a poterle interpretare».
Visto che esprime se stessa così compiutamente, perché ha bisogno di andare dall’analista?
«Non penso di averne bisogno: penso di volerlo. La terapia mi piace. È un modo produttivo per tenere in mano il mio benessere emozionale, di fronte a un testimone in grado di individuare i miei pattern comportamentali e intervenire sul modo in cui li ripeto, per non ripetere gli stessi errori. È semplicemente uno strumento. Come la palestra per il corpo».
In seduta cosa ha imparato?
«Che nella mente esistono tre castelli: quelli di pietra, quelli di sabbia e quelli nel cielo. Quelli di pietra sono inamovibili, come il mio amore per la recitazione. Quelli nella sabbia rappresentano le cose nuove ma non sicure, come ad esempio una recente relazione. Quelli nel cielo rappresentano la fantasia e la vita immaginata, da non confondere mai con la realtà».
Qual è il più grande castello nel cielo che ha abbandonato?
«Ho abbandonato il progetto di costruirmi una famiglia, che si tratti di un marito o una comune dove vivere con tutti i miei amici. Ho rinunciato a quel senso di sicurezza e stabilità perché ho capito che prima devo imparare a vedermela con il vuoto».
Aveva mai giurato a se stessa che non sarebbe diventata una star?
«No, mai. Anche perché in quella parola non mi identifico: è sensazionalistica ed esclusiva. Aspiro semplicemente a essere una donna indipendente, forte e libera. E se ci riuscirò, allora sì, sarò diventata un star».
Hair Lucas Wilson Makeup Laura Stiassni Manicure Rita Remark Set Designer Kadu Lennox Assistente set designer Joe Barnes Assistenti stylist Sam Deutsch e Myron Hernandez Assistenti fotografo Alex Kalb e Alan Bartlett Operatore digitale Charley Parden Produzione Greg Jaroszewski e Kona Mori@Accompany x Mori Projects