Ha lasciato un segno indelebile nella moda degli anni Ottanta e Novanta. Ha abbattuto stereotipi estetici ed è diventata un modello per le ragazze afrodiscendenti di tutto il mondo. Ma per Karen Alexander, 57 anni, la sua famiglia allargata resta la più grande soddisfazione. Ci sono Ella e Zora, avute dalla relazione con Adam Kidron, e Audrey Rose, nata dopo il secondo matrimonio con lo sceneggiatore Kurt Johnstad. E poi ci sono i «figli del cuore»: un cugino vissuto con lei dopo la morte dei genitori, quando lui aveva appena due anni; una bambina di tre anni che ha perso la mamma e di cui lei si è presa cura a lungo e un’amica di una delle figlie, trasferitasi da loro per studiare negli Stati Uniti.
Nove anni fa la vita di Karen è cambiata radicalmente perché le è stata diagnosticata una malattia infiammatoria autoimmune, la dermatomiosite. A d ha voluto raccontare la sua lotta.

Lei soffre di una malattia rara che richiede terapie frequenti e dolorose. Come vive questa realtà?
«Non esiste ancora una cura, ma ho la fortuna di poter seguire delle ottime terapie. La dermatomiosite non influenza necessariamente la durata della vita ma attacca la pelle e i muscoli, incluso il cuore, provocando molteplici disturbi. A questo si aggiungono anche due aneurismi cerebrali trovati per caso. Alterno periodi critici a momenti in cui sto meglio, sia fisicamente che mentalmente. La mia speranza più grande è che la malattia entri in fase di remissione, perché vorrei poter realizzare alcuni sogni. Ma se non dovesse accadere, sono pronta ad accettarlo».
Che conseguenze ha avuto la malattia nella sua vita?
«Me l’ha cambiata in tanti modi. Ha messo fine alla mia carriera e mi ha costretta a rinunciare all’idea di avere il controllo su di me e sulle mie giornate. Mi mancano le cose che facevo con i miei figli, il mio lavoro, i momenti sul set, anche se vedo sempre la mia carissima amica Tatjana Patitz e sento spesso anche Cindy Crawford. Ho accettato solo un paio di proposte da quando sono malata, ma è stato difficile. Hanno fatto di tutto per mettermi a mio agio sul set, ma non mettevo i tacchi da anni e pesavo venti chili in più. Ho iniziato a piangere perché ho dovuto ammettere a me stessa di essere cambiata».
Quando ha iniziato a stare male?
«Mia figlia Audrey Rose aveva un anno quando mi sono ammalata e le cose sono precipitate rapidamente. All’inizio non potevo camminare e avevo problemi a deglutire. Ho subito degli interventi all’esofago, non ho mai avuto bisogno di un sondino per l’alimentazione ma ho avuto paura di prendere persino un’aspirina, perché pensavo di soffocare. Tre anni fa ho perso la vista dell’occhio sinistro, ma ora è tornata».
Lei ha avuto una carriera incredibile diventando un punto di riferimento per le ragazze afrodiscendenti che sognano di lavorare nella moda. Come è cominciato tutto?
«Avevo tredici anni e a casa mia si leggevano riviste come Ebony ed Essence. Conservo ancora il ritaglio di un’intervista a Iman, Beverly Johnson e Pat Cleveland. Beverly diceva che le piaceva fare la modella perché le dava la possibilità di viaggiare, Iman raccontava della sua laurea. A quattordici anni ho cominciato a lavorare in una casa di riposo, ero giovane, idealista e determinata a cambiare le cose, così ho deciso che ne avrei costruita una tutta mia e i soldi necessari li avrei guadagnati facendo la modella. È questo che mi ha dato la forza di provare. Mi sono fatta fare delle fotografie da un cugino e ho cominciato a visitare tutte le agenzie di New York, ricevendo solo rifiuti. Mi dicevano che ero troppo commerciale o troppo poco, troppo scura o troppo chiara, troppo alta. Oppure mi rimbalzavano affermando che non prendevano in considerazione modelle di colore, oppure che avevo gambe troppo muscolose. Poi finalmente ho firmato con la Legends, l’attuale IMG. Non che pensassi di essere bella, a casa non ne parlavamo mai, per noi contava essere intelligenti e delle brave persone. Penso che sia stato l’amore della mia famiglia a rendermi forte. Dopo cinque anni sono stata scelta per la mia prima copertina di Vogue e così e` davvero cominciato tutto. Sono stata fortunata, grandi fotografi come Peter Lindbergh, Herb Ritts, Gilles Bensimon, Steven Meisel e Patrick Demarchelier hanno creduto in me».
Quando parla di Lindbergh si commuove. Perché è stato tanto importante?
«L’ultima volta che l’ho sentito è stato il giorno in cui è morto, avevo recuperato la vista da poco e abbiamo parlato del libro che volevo scrivere. La sua scomparsa è stata uno shock. Peter faceva parte della mia vita, mi ha vista crescere davanti al suo obiettivo, la sua mancanza è tuttora devastante. È stato una guida per me, un maestro, ha influenzato le mie scelte. La prima volta che ho lavorato con lui mi ha detto solo “sii te stessa”. Avevo diciannove anni e non avevo idea di che cosa significasse. Ho impiegato 35 anni a capire che quella frase non aveva nulla a che fare con l’esteriorità. L’ultima volta che ho preso l’aereo è stata per andare alla sua funzione di saluto, a Parigi. Quel giorno è stato incredibile e straziante allo stesso tempo».
Cosa aveva di diverso?
«I suoi set erano magici, riusciva a renderli speciali, sicuri e intimi anche se c’erano centinaia di persone e luci. Peter era come un orsacchiotto di peluche in carne ed ossa, in cui viveva un bambino di sei anni. Scattava a oltranza, poi si avvicinava e ti folgorava col suo sorriso disarmante, era adorabile. Un raggio di luce, un’anima pura, un uomo generoso che non nascondeva la sua vulnerabilità, permettendomi di mostrare anche la mia davanti all’obiettivo».

Le è mai capitato di trovarsi a combattere contro la discriminazione?
«A Parigi, nel 1988. Ero a una sfilata con altre modelle afrodiscendenti e, durante le prove, il designer ci fece uscire tutte insieme e gridò “dove sono tutte le negre?”. Rimasi inorridita. Saremmo dovute andar via, ma non l’abbiamo fatto e me ne sono vergognata per tanto tempo. Un’altra volta un agente a Londra mi ha cacciata perché ero troppo scura e i suoi clienti non volevano lavorare con me, anche se ero già apparsa sulla copertina di Vogue. E poi i fotografi si lamentavano spesso di come fosse difficile regolare l’illuminazione quando sul set ero insieme a una modella bianca, perché la mia pelle era troppo scura…».
Si parla tanto di come la moda sia diventata inclusiva. Lei cosa ne pensa? È davvero così?
«Onestamente non ne sono così sicura. Non riesco a capire se le modelle di colore vengano scelte per obbligo sociale o convinzione. Nella mia vita ho adottato questa regola: se tutti quelli che frequenti ti assomigliano, c’è qualcosa che non va. Io ho figlie birazziali e ho voluto dare loro l’esempio vivendo concretamente il concetto di diversità e facendole crescere in un ambiente dove tutti sono benvenuti, a prescindere dal colore, dal genere e dall’orientamento sessuale. Ognuno di noi dovrebbe farsi un esame di coscienza, ma noto che parlare di diversità mette ancora tanta gente a disagio. Forse basterebbe semplicemente partire da un presupposto di rispetto reciproco. Solo allora le cose comincerebbero a cambiare davvero».
È mai riuscita a realizzare il sogno di costruire una casa di riposo?
«Purtroppo no, e per tanto tempo me ne sono vergognata. Poi ho capito che ci sono altri modi per prendersi cura degli anziani. Ho fatto volontariato in un ospizio per trent’anni. Mia madre ottantanovenne ora vive con me e di recente mi sono occupata anche di mia suocera. Quando mio padre si è ammalato, gli sono stata accanto. Dopo la sua morte l’ho lavato, unto con olio dalla testa ai piedi e coperto di rose. È stato doloroso ma dolce. Era presente anche mia figlia di sei anni, volevo che vedesse cos’è il vero amore e che passare a un’altra vita è più facile quando sei con chi ti vuole bene».
Se potesse tornare indietro, cambierebbe qualcosa?
«Assolutamente no, rifarei tutto allo stesso modo. Ho conosciuto persone meravigliose e vissuto momenti irripetibili».
Cosa vorrebbe lasciare al mondo e come vorrebbe essere ricordata in futuro?
«Mi piacerebbe raccontare la mia vita in un libro. Ho conservato tante foto e ricordi in un armadio e credo sia arrivato il momento di tirarli fuori. Ho uno zio fotografo molto bravo e vorrei lavorare a una mostra con lui. Vorrei essere ricordata per come ho fatto sentire gli altri, non per quello che ho realizzato. Ho sempre pensato che la mia parte migliore sia la famiglia. Quando vi ricorderete di me, spero penserete anche a loro. Ricordatemi come una persona che ha amato tanto e ha avuto la fortuna di amare anche la sua vita incredibile. Sarei felice se di me non restassero solo le cose luccicanti che ho fatto nella moda ma la mia luce, nella speranza che chiunque mi abbia conosciuta si sia sentito libero di essere se stesso quando mi è stato accanto. Ricordatemi per essere stata una mamma, perché è la cosa più bella che abbia mai fatto».