La moda è qualcosa di barbaro, perché produce un’innovazione senza ragione e un’imitazione senza beneficio, diceva il filosofo George Santayana. Sbagliando, perché la grande ruota della moda è uno dei meccanismi principali sia per manifestare, sia per conquistare status nella società, ed è – così come l’arte – un motore di innovazione. Ma questo motore, ultimamente, sta arrancando. Lo sostiene David Marx (firma per il New Yorker e Lapham’s Quarterly) nel suo nuovo saggio 'Status and Culture: How Our Desire For Social Rank Creates Taste, Identity, Art, Fashion and Constant Change' (Viking).
«Nell’era digitale il meccanismo che dalle mode fa scaturire reali innovazioni di costume si è inceppato, provocando la stagnazione culturale che tutti possiamo vedere», spiega Marx. «Un esempio: le gag più divertenti del film Ritorno al futuro sono tutte imperniate sul confronto ironico tra l’America del 1955 e quella del 1985, mondi così diversi da sembrare alieni. Si affiancano Chuck Berry e l’heavy metal, le classiche Cadillac e la futuristica DeLorean, il piumino anni 80 di Marty McFly viene scambiato dai ragazzi degli anni 50 per un giubbotto di salvataggio». Il messaggio è che in quei trent’anni il mondo sia cambiato moltissimo. «Negli ultimi trenta invece non è cambiato molto, dal punto di vista del gusto e del costume: se tornassimo al 1992 non avremmo la percezione estetica diversa da quella contemporanea».
Per capire il ruolo che la diffusione di Internet ha avuto in questa stasi bisogna tornare al 2004, quando Chris Anderson, direttore di Wired, tesseva le lodi della “coda lunga”, sottolineando come l’economia e la cultura si stessero spostando da un modello in cui i mercati erano dominati da pochi prodotti dominanti, baciati da un enorme successo di massa, a un modello in cui – grazie al digitale che elimina i vincoli di spazio dei magazzini fisici e permette di trovare qualsiasi cosa con i motori di ricerca – ogni mercato può caratterizzarsi come una lunghissima serie di nicchie che possono soddisfare i gusti più diversi. Da un mercato di massa, insomma, si passava per Anderson a una “massa di mercati”, con un ampiamento enorme dell’offerta commerciale e culturale. «Così oggi possiamo scegliere tra una vastissima quantità di cose da indossare, leggere o ascoltare, ma non è affatto chiaro se gli altri conosceranno ciò che scegliamo, e se quindi saranno capaci di interpretare il segnale di status che vorremmo trasmettere con le nostre scelte», spiega Marx. «Abbiamo un infinito serbatoio di cultura e, paradossalmente, viviamo una stagnazione culturale perché quello che manca non sono i cambiamenti e le novità, ma un cambiamento che sia ordinato e sequenziale. Ciò che abbiamo sono invece piccole e caotiche oscillazioni, disordinate come molecole in un moto browniano: così c’è attività, ma è solo un brulicare di innumerevoli forze che si annullano tra loro. E la loro risultante è la stasi».
La conseguenza? Per trovare un terreno comune con gli altri, per mandare segnali di status che gli altri siano in grado di cogliere, siamo costretti a fare riferimento, ancora più di prima, ai prodotti mainstream. E così diventa meno premiante cercare di distinguersi esibendo un gusto diverso da quello medio. Il gusto, come espressione di un capitale che non è economico ma culturale, è stato per molto tempo il fattore con cui anche chi non apparteneva alle classi privilegiate poteva salire di status e manifestare agli altri lo status conquistato.
Ma se la società della “coda lunga” non permette più scelte forti, ma solo microscelte poco incisive e caratterizzanti, ecco che l’unico modo efficace per manifestare uno status resta la capacità di spendere, ovvero ciò che l’economista Thorstein Veblen definiva “consumo vistoso”. «Anche perché mentre prima ciò che tutti cercavano era un miglioramento – o al limite un mantenimento – del loro status locale, del prestigio e della considerazione che potevano avere nella loro comunità, oggi quello che conta è uno status più globale, come quello che si ha online: i follower non hanno confini geografici. Questo significa anche, però, che i segnali di status che si possono mandare oggi, per essere efficaci su una platea molto più variegata, devono semplificarsi al massimo, ridursi al minimo comune denominatore comprensibile a tutti: e così si ritorna all’esibizione della capacità di spendere, ai “rich kids of Instagram” come modello. Ma una società dove lo status si segnala solo in questo modo, e non attraverso l’esibizione di un gusto più raffinato o di uno stile più creativo, è una società noiosa», commenta Marx. «A questo si aggiunge l’ecumenismo tipico del panorama culturale contemporaneo: oggi “il disgusto è diventato di cattivo gusto”. Non c’è più un fermento di avanguardie stilistiche come i mod, i punk, e così via che traggono una spinta propulsiva dall’opporsi al gusto comune. C’è invece il “pop-timism”, quell’ottimismo pop per cui tutto va bene. Noi onnivori postmoderni consumiamo e amiamo tutto: pop e “indie”, prodotti di nicchia e prodotti di massa, il nuovo e il rétro, il primitivo e il sofisticato: nei guardaroba più curati Givenchy si mischia a Uniqlo. Come ha scritto lo storico Louis Menand, il New Yorker ha insegnato a tutti che essere anti-sofisticati è il segno della vera raffinatezza, e che ogni cultura degna di esistere può essere apprezzata senza bisogno di una preparazione speciale o di ginnastica mentale».
L’accesso immediato a tutto il mondo sul Web ci ha resi onnivori culturali, ma paradossalmente proprio la velocità di trasmissione delle informazioni blocca sul nascere la formazione di mode realmente rilevanti e consistenti: «Fino a oggi il motore delle mode era questo: le élite adottavano un nuovo stile, magari ispirandosi a una tendenza di un Paese lontano, accessibile solo a pochi eletti per passaparola. Quello stile diventava un segnale di appartenenza all’élite, e lo rimaneva fintanto che le possibilità di accesso a quello stile rimanevano limitate a quella classe sociale. Chi aspirava allo status di élite, o voleva farsi passare per élite, si ispirava sempre di più a quello stile tentando di emularlo. Quando l’emulazione diventava troppo diffusa nella società, quello stile, inflazionandosi, perdeva la sua esclusività. L’élite allora lo abbandonava per abbracciare un nuovo stile più esclusivo», spiega Marx. «Oggi è cambiato soprattutto questo, l’accesso alle informazioni: quando nasce una nuova tendenza, in poche ore questa può diventare nota in tutto il mondo grazie ai social media. Questo significa che le élite sono diventate molto più guardinghe nell’adottare uno stile, perché si rendono conto che potrà essere copiato già sul nascere, e quindi non servirà a distinguersi».
Senza contare che i cicli della moda hanno subito una brusca accelerazione: «Oggi i grandi brand sfornano 5-6 collezioni all’anno e c’è un incessante flusso e ricambio di contenuti di moda sui media online e offline. Prendiamo il mercato del lusso: il cliente tipo dei brand “luxury” è sempre di più la persona giovane e ricca cinese. Un tipo di cliente molto vorace di trend veloci, così i brand si adattano a questo ritmo accelerato» spiega Marx (sui consumatori cinesi a pag. 88 un reportage di Gianluca Modolo). «In questa girandola vorticosa, le novità rischiano di diventare obsolete in poco tempo, e quindi può esserci più ritrosia a fare una scelta di campo, a investire, come status symbol, in uno stile ben definito. Ma senza scelte di campo, e senza “manifesti” stilistici identitari (come il dadaismo o il futurismo), la cultura perde dinamismo». L’arte non spunta dal nulla, insomma: «L’arte raramente è riconosciuta come tale se non si oppone a ciò che la precede», spiega Marx. «È implicito nel processo della cultura che i nuovi artisti si oppongano agli altri artisti e al mercato di massa, e che qualcosa di interessante venga fuori da questa contrapposizione. Vale anche per la moda: quello che ci servirebbe, oggi, è più contrapposizione. O, in alternativa, il ricorso a un tipo di originalità che non invecchi dopo pochi giorni. Un esempio è il brand giapponese Comme des Garçons: i suoi stilisti non cercano spunti dalla realtà quotidiana, ma dal subconscio. E quindi le loro innovazioni sono frutto di una creatività che aspira al lungo termine: è come se spuntassero dal nulla, hanno un carattere di radicalità e non sembrano soltanto una pigra risposta all’eterna domanda: Ok, adesso qual è la prossima cosa?».