Quando la raggiungiamo via Zoom, la curatrice ed esperta di fotografia Charlotte Cotton è a New York dove sta allestendo Close Enough: New Perspectives from 12 Women Photographers of Magnum, la collettiva che raccoglie il lavoro di tre generazioni di autrici di una tra le più famose agenzie internazionali (in occasione dei suoi 75 anni di storia). Alle spalle di Charlotte, nelle sale ancora spoglie dell’International Center of Photography (dove la mostra sarà esposta fino al 9 gennaio 2023), si intravedono sul pavimento le immagini incorniciate di donne che hanno fatto la storia di Magnum (come Susan Meiselas), di artiste affermate (come Alessandra Sanguinetti, Olivia Arthur o Newsha Tavakolian) e di nuove leve dello sguardo documentario (come Lua Ribeira e Myriam Boulos). Gli scatti di Knit Club di Carolyn Drake, viaggio surreale all’interno di un enigmatico circolo di amiche nel sud degli Stati Uniti, aspettano di essere appese alla parete, mentre qualcuno comincia a inchiodare le foto di Hafiz, lavoro firmato da Sabiha Çimen, esplorazione intima e coinvolta del quotidiano delle ragazze musulmane in Turchia.
A tenere insieme la varietà delle loro opere, nel segno – poetico e militante – della complessa ed esplicita relazione di collaborazione che ha legato queste fotografe ai protagonisti dei propri racconti, c’è appunto la nostra interlocutrice di oggi. Ovvero una tra le più illuminate curatrici di fotografia sullo scenario internazionale. Cotton comincia subito parlandoci della loro misura del celebre “abbastanza vicino” (close enough), coniato dal co-fondatore di Magnum Robert Capa (“Se le tue foto non sono abbastanza buone, vuol dire che non sei andato abbastanza vicino”, recita infatti la sua frase più citata).
Perché proprio questo titolo?
«All’inizio non mi convinceva per niente. Perché citare proprio le parole di un uomo in una mostra di sole donne? Ma poi ho capito che conteneva una rivendicazione: queste fotografe si sono attribuite il diritto di definire cosa significhi per loro “abbastanza vicino”, e di cos’è, per loro, “una buona foto”».
Tutti i progetti in mostra sono il risultato di un’intensa collaborazione tra le fotografe e i soggetti delle loro opere. È il segno di un superamento della prospettiva tipica della fotografia documentaria tradizionale?
«Le fotografe in mostra sono in prima linea in questo cambiamento. Lo stesso termine di “collaborazione” per descrivere la relazione tra autore e soggetto è una definizione con cui la maggior parte dei fotografi, tradizionalmente, non è mai stata a proprio agio. Ma io credo che proprio il genere con cui queste fotografe si identificano sia fondamentale per la loro capacità di costruire un dialogo orizzontale. L’essere donne le spinge a interrogarsi costantemente sulla propria relazione con i soggetti. Il paradosso è che le donne, spesso, sono definite attraverso le loro relazioni: una donna è “la moglie di”, “la figlia di”, “la madre di”. La mostra, invece, cerca di esplorare questo concetto di “relazionalità” da un punto di vista diverso. Penso per esempio a un progetto come quello di Nanna Heitmann, artista russo-tedesca, tra i pochi fotografi indipendenti tornati in Russia per raccontare il dissenso contro la guerra in Ucraina, occultato dai media locali. Le proteste sono imponenti, moltissime persone sono scese in strada e sono state arrestate: il lavoro di Nanna affronta queste questioni che attraversano anche la sua vita. Quindi, è lei stessa il soggetto del proprio lavoro».
Un progetto come quello di Bieke Depoorter – racconto durato tre anni del rapporto della fotografa con Agata, musa e amica – spinge invece l’intensità di questa relazione al punto da farci domandare chi sia, in realtà, l’autrice stessa…
«La complessità e la durata della “negoziazione” tra Agata e Bieke porta quasi a un’inversione di ruolo. In che percentuale l’autrice è Bieke e in che percentuale l’autrice è Agata? Il lavoro di Bieke sceglie di non dare una risposta univoca. L’installazione in mostra contiene video, fotografie, email, messaggi, che offrono uno spaccato su quello che Agata pensa del progetto che lei e Bieke stanno portando avanti insieme, aprendo una finestra su quanto possa essere intensa e complicata la relazione tra un fotografo e un soggetto. Ho scelto di esporlo nella stessa stanza di quello di Cristina de Middel: tutti e due i progetti chiamano infati in causa il concetto di autorialità, e lo fanno esplorando un orizzonte particolarmente delicato, quello dei sex-worker. Agata lavora come escort, e ha fatto del suo lavoro parte della narrativa che lei e Bieke hanno costruito. Cristina ha deciso di mettere in discussione il modo in cui la prostituzione è tradizionalmente rappresentata dalla fotografia documentaria, ritraendo i clienti delle prostitute. Entrare nella stanza dove sono esposte le loro immagini significa, in un certo senso, aprire il vaso di Pandora delle contraddizioni che la fotografia può contenere».
Gentlemen’s club di Cristina de Middel e City of Brotherly Love di Hannah Price propongono una riflessione sugli uomini che vedono le donne come oggetti, articolando un’inversione tra il soggetto che guarda (tipicamente maschile) e l’oggetto dello sguardo (tipicamente femminile).
Gli equilibri della rappresentazione tra uomo e donna stanno cambiando definitivamente?
«Tutti i lavori in mostra pongono questa questione, ma quando si guarda il lavoro di Hannah Price ci si rende conto inequivocabilmente di come la tradizionale posizione di vantaggio maschile nell’esercizio “del punto di vista” si stia ribaltando. Il progetto di Hannah nasce quando lei, giovane fotografa afroamericana, decide di ritrarre gli uomini che le facevano catcalling per le strade di Philadelphia. Le sue immagini sono diventate virali, perché, chiamando in causa in maniera diretta gli uomini che la approcciavano, sono entrate a far parte della narrativa del #MeToo. Il suo intento, però, non era “criminalizzarli”: il modo in cui li ha ritratti è delicato. La macchina fotografica è diventata uno strumento di ribaltamento e di dialogo tra loro».
Ma è ancora necessario fare mostre focalizzate sul genere?
«In realtà per me è la prima mostra che curo con questo approccio. Più che soffermarmi sullo spettro di genere, mi è sempre interessata l’idea di naturalizzare il ruolo delle donne all’interno della storia della fotografia. Ma ora qualcosa è cambiato. Credo che in questo momento sia fondamentale far sentire la propria voce, soprattutto con il colpo inferto ai diritti delle donne in America dal ribaltamento della sentenza Roe v. Wade, pietra miliare del diritto all’aborto. Bisogna anche interrogarsi su cosa significhi appartenenza di genere, perché per 12 artiste che si definiscono “donne” ci sono dodici interpretazioni diverse del termine».
Qual è il punto di incontro tra loro?
«Il bisogno di interrogarsi sul proprio ruolo. Il non sentirsi legittimate a prescindere a esercitare il proprio punto di vista su qualcosa o su qualcuno le porta a domandarsi: “Chi sono io per sentirmi in diritto di raccontare questa storia?”. Ma non è solo una questione di genere: qualunque individuo la cui identità esuli dallo standard del sistema patriarcale e del suprematismo bianco sarà continuamente costretto a porsi questa domanda».
Se questi parametri influenzano e definiscono la misura che queste fotografe hanno del concetto di close enough, cosa definisce, per lei, l’idea di una foto “abbastanza buona”?
«Ho sempre nutrito molti sospetti nei confronti di una definizione come “buona foto”. Nei lavori delle fotografe in mostra non c’è mai niente di pigro, stereotipato o convenzionale. Non hanno paura di dire quello che vogliono e di essere aperte e oneste riguardo alle loro pratiche: guardando i loro progetti alle pareti, puoi sentire le lacrime e il sudore spesi per realizzarli. Per loro, ogni singola immagine rappresenta il frutto di una scelta consapevole, ed è questo l’unico parametro a cui faccio riferimento per valutare una foto come “buona”».