Si chiama Mrs.March. La moglie dello scrittore, il romanzo d’esordio dell’autrice spagnola Virginia Feito, approdato nelle librerie italiane il 6 settembre 2022 (edito da HarperCollins), un libro che è una vera scommessa narrativa: l’intento è quello capovolgere lo stereotipo della casalinga dedita al marito, partner per cui ha felicemente rinunciato alla propria carriera, per trasformarla in una sorta di detective a caccia degli inganni (e, forse, qualcosa di peggio) dell’uomo per cui ha messo da parte ogni ambizione. Il tema può sembrare leggero e la trama - Mrs. March, perfetta padrona di casa e sostenitrice incallita del lavoro del suo uomo, che è romanziere di successo, scopre che l’orribile protagonista del suo ultimo libro è ispirata a lei - intreccia con maestria spunti in arrivo dal thriller e dal romanzo rosa, senza mai perdere di vista i sentimenti, le paure e le angosce della protagonista.
Sul piano di finzione, la distruzione dell’immagine della casalinga che cede il comando all’uomo di casa per fare la moglie o la madre funziona fintanto che la scelta iniziale, quella di non lavorare per permettere al partner di avanzare, viene rigettata in toto. Ma nella vita vera, cosa succede quando questa scelta viene fatta in modo pienamente consapevole, ovvero quando la carriera della donna viene messa serenamente in pausa (o fermata del tutto) per permettere a quella dell’altro di procedere?
L’identikit delle “casalinghe” italiane
Partiamo dai dati: secondo un’indagine portata avanti da Randstad nel 2021 a partire dalla definizione generica di Casalinga (secondo terminologia ISTAT), si stima che, nella fascia 30-69 anni, circa 7,5 milioni di donne, in Italia, siano inattive, ovvero non hanno lavorato neanche un’ora nel periodo di tempo considerato. Le percentuali delle inattive e inoccupate, per regione, confermano che le donne del Sud sono quelle che lavorano meno (il 58% del segmento); i numeri scendono al Nord (34%) e al Centro (37%).
Le ragioni dell’inattività di questa grossa porzione di popolazione femminile in Italia sono da intrecciare ovviamente ai dati della disoccupazione, esacerbati dal periodo pandemico, che ha generato un’ondata di licenziamenti in particolare sulle dipendenti donne. I dati raccolti da Randstad ci dicono che è la componente geografica, economica e culturale (dunque, ad esempio, il titolo di studio) a fare la differenza e che il grado di soddisfazione delle donne che non lavorano è più alto se si tratta di una scelta volontaria e se il partner ha una buona posizione, che garantisce sostegno a tutti i membri. Diversa, invece, la situazione delle famiglie che versano in situazioni di instabilità, se non addirittura in stato di povertà assoluta (1,9 milioni secondo indagine ISTAT del 2021).
Al netto delle ragioni sociali, economiche e culturali che generano picchi preoccupanti sui dati della cosiddetta inoccupazione obbligata, la scelta di alcune donne di rimanere a casa può anche essere consapevole, percepita come positiva, non problematica. Abbiamo cercato di indagare le motivazioni e le opportunità, sul piano sociale e psicologico, di questo particolare segmento, con l’aiuto di due esperte.
Scelta consapevole o obbligata?
La dottoressa Sara Sesia, psicologa e volontaria del progetto Donne al Quadrato della Global Thinking Foundation, fondazione che si occupa di sensibilizzare, informare e sostenere le donne vittime di violenza economica, ci ha detto che, quando parliamo di donne che hanno deciso di mettere da parte la propria carriera a favore del partner, «l’aspetto fondamentale da prendere in considerazione è che si tratti di una scelta libera, tenendo però a mente che stiamo parlando solo di una scelta possibile tra le tante disponibili. Quando, invece di una scelta, di una opportunità dettata da considerazioni condivise che tengono conto dei desideri e dei bisogni di entrambi, viene vissuta come una rinuncia o una costrizione, allora questo genera uno squilibrio nella coppia».
La dottoressa ci ha detto che, in queste situazioni, la donna che cede il passo al partner può sentirsi «svilita, può percepire la necessità di dover in qualche modo essere risarcita per il danno subito o “ringraziata” per il sacrificio fatto». Ma ci sono anche coppie che attraversano serenamente momenti come questo, «alleate nel raggiungimento di un obiettivo comune».
Quindi non sempre la rinuncia al proprio universo professionale ha una valenza negativa. Secondo la psicologa, «ci sono ancora molti pregiudizi sulle donne che, volontariamente e con gioia, decidono di farsi da parte per agevolare la carriera del partner. Nel mio lavoro incontro molte donne felici di essersi “spogliate” del loro abito professionale: come spesso accade anche con quello preferito, questo vestito a un certo punto può non calzare più a pennello, non piacere più come prima: così capita anche con la dimensione lavorativa». Per la dottoressa «non sempre la scelta del ritiro dalla vita professionale e produttiva porta con sé necessariamente un vissuto di frustrazione: a volte, semplicemente, si cambia, cambiano gli interessi e le priorità. Non è la scelta in sé a pesare, ma lo sguardo degli altri, il pregiudizio o il giudizio che ritrae la donna che ha scelto di non lavorare come triste e frustrata».
Quel divario tra partner che a lungo termine può diventare problematico
Se a breve termine il rimanere a casa può essere visto come un’opportunità, soprattutto se accompagnata da condizioni economiche favorevoli e da un grado di soddisfazione personale alto, a lungo andare il gap tra partner può generare problematiche non solo nella coppia, ma anche sul piano individuale.
Per la dottoressa Sesia «le esigenze possono non solo cambiare ma anche evolvere in forma e direzione. Nelle attività di volontariato degli sportelli del progetto Donne al Quadrato, riscontro spesso come le donne che ricominciano a lavorare dopo un periodo di arresto, magari dovuto alla maternità, temono di sentirsi inadeguate, non abbastanza capaci né preparate. Temono inoltre di non riuscire più essere delle “brave mamme”, il che equivale spesso all’idea di dover sempre essere presenti nella vita dei figli. Le cognizioni, le idee che le persone hanno su loro stesse e sul mondo attorno condizionano fortemente il loro vissuto, le loro emozioni e i loro comportamenti. Per questo un sostegno psicologico può risultare particolarmente utile per capire quali sono queste idee che ci guidano, il più delle volte in maniera inconsapevole».
Un altro aspetto da considerare quando si parla di rinuncia al proprio lavoro - e dunque anche agli introiti che questo genera, lo suggerisce Claudia Piccinelli, life coach e responsabile del progetto Donne al Quadrato: «è chiaro che rinunciare a trovare un’occupazione, anche se si tratta di una scelta consapevole e, in una certa fase della vita, anche gradita, impone una minore libertà sul piano economico, oltre che su quello della competenza». Se parliamo di una donna istruita che ha già avuto esperienza nel mondo del lavoro, l’allontanarsi dalla professione può «comportare la perdita di visione rispetto al presente e al futuro del suo settore». La deriva è che, a lungo andare, «si perda la propria posizione sociale di cittadine attive e consapevoli dei propri diritti».
Secondo Piccinelli, «la scelta di fermarsi per permettere al partner di fare carriera è pienamente equilibrata se anche la donna che rinuncia al proprio lavoro, a parti invertite, viene messa nelle condizioni di fare lo stesso». Ovvero, se a un certo punto si decide di tornare in campo, non vi deve essere opposizione alcuna. Non è un caso che, tra le conseguenze più gravi dell’inattività femminile vi sia la violenza economica, che la Fondazione cerca di combattere con progetti come i cicli formativi di Donne al Quadrato, talk e incontri. In questi casi, estremi ma purtroppo molto diffusi, la rinuncia alla propria posizione professionale è legata non a una scelta personale ma a un’imposizione, causata dall’esigenza di controllo da parte del partner, che può arrivare a espropriare la compagna di ogni avere, impedendole di riprendere in mano il proprio curriculum pur di mantenere il potere su di lei.
Riprendere in mano l’ambizione dopo un periodo di stand-by
Se la scelta di fermarsi è portata avanti da una consapevolezza che non mina, sul fronte psicologico ed economico, l’autostima e la posizione della donna in famiglia, secondo la dottoressa Sesia si tratta solo di ricalibrare, a tempo debito, le proprie ambizioni, che oscillano, nel corso della vita, a seconda di esigenze e desideri per loro stessa natura variabili.
«L’ambizione è il sentimento di aspirazione verso qualcosa, una tensione, un desiderio che ci fa avvertire che ci manca un pezzo per realizzare il nostro personale progetto di vita, di cui la sfera professionale è spesso una parte importante. Questo sentimento, quando torna predominante è importante ascoltarlo, accoglierlo e dargli una forma, concretizzarlo in un progetto anche se inaspettato».
Sul piano professionale però, può essere più complicato re-immettersi in un mondo del lavoro che cambia e si evolve costantemente, dopo un periodo di inattività. La coach Claudia Piccinelli suggerisce di seguire corsi specifici per imparare a destreggiarsi in un contesto che può mettere alla prova persino chi è aggiornato. «C’è sempre qualcosa di nuovo da imparare, un cambiamento a cui adattarsi, nuove tecnologie da utilizzare. Le dieci professioni più richieste attualmente dal mercato non esistevano fino a 10 anni fa e, fra 10 anni, 375 milioni di lavoratori si troveranno a gestire processi completamente diversi a causa dell’impatto che la digitalizzazione, l’automazione e l’intelligenza artificiale stanno avendo già oggi in molteplici ambiti».
Per capire come muoversi in un contesto così variegato, il supporto di associazioni come Global Thinking Foundation o come MOICA (Movimento Italiano Casalinghe), attive sul territorio, diventa quindi fondamentale per le donne che vogliono ritrovare la propria dimensione lavorativa e realizzarsi professionalmente. L’obiettivo di corsi, incontri e di moduli formativi come quelli proposti dalle volontarie di Donne Al Quadrato, secondo Piccinelli, è proprio quello di «riflettere sul proprio potenziale e sul potere delle competenze trasversali, per comprendere al meglio come affrontare la ricerca del lavoro, dal processo di selezione alla creazione del CV e della pagina LinkedIn, fino al colloquio. Si analizzano insieme le nuove professioni, le modalità lavorative e organizzative, le tendenze e opportunità che l’era digitale offre, fino a capirne le normative, le forme contrattuali, le tutele, i diritti e doveri di ciascuno».