La prima notizia è che il vino "naturale" è vivo e gode di buona salute. La seconda è che ha paura di sé stesso. Difficile spiegare altrimenti i dubbi, le perplessità e i timori che condizionano un movimento che in pochi anni è riuscito a sconvolgere l’ordine costituito e a imporsi a livello qualitativo arrivando addirittura a modificare il gusto di parte del pubblico e le scelte delle grandi aziende. Il fatto che si tratti di un fenomeno ancora circoscritto nei numeri e nelle dimensioni rende ancora più incredibile il successo del naturale, che partito da esigenze di tipo etico (salvaguardia dell’ambiente e del territorio, rigetto della chimica, attenzione alla salute di chi beve) e culturale (aderenza territoriale, rifiuto della serialità, rilancio di zone sottovalutate, riscoperta di vitigni dimenticati) ha finito per influenzare il mainstream: oggi sono molte le aziende convenzionali che cercano in qualche modo di sintonizzarsi sull’onda, realizzando linee di produzione dedicate e avvalendosi della collaborazione di consulenti biodinamici.
Il vino "naturale" gode di ottima saluta: parabola di una rivoluzione contemporanea
Eppure solo poche settimane fa Alice Feiring, giornalista e scrittrice accreditata a livello mondiale come esperta e sostenitrice del mondo naturale, ha pubblicato sulla Sunday review del New York Times un articolo dal titolo inequivocabile: Is natural wine dead? (Il vino naturale è morto?). La risposta soffia nel vento, tanto che la stessa Feiring arriva a concludere che no, il vino naturale non è morto ma rischia di uscire malconcio o stravolto dall’incontro con il successo. Si tratta di una questione tutt’altro che recente, dal momento che gli stessi vignaioli si pongono da tempo certe domande sul rapporto tra etica e popolarità e sulla tenuta del loro movimento. Piccola o grande, quella del vino naturale è stata una rivoluzione. Ma c’è chi sostiene, e in parte lo fa a ragion veduta, che da un qualche tempo il naturale sia diventato moda e che in quanto tale non sia (più) immune da tentativi di imitazione, furberie e opportunismi. In una parola sola, che sia diventato corruttibile. I produttori sono i primi a essere tormentati dal dubbio che il successo possa rivelarsi una trappola, sempre che non sia già accaduto. La questione è complessa, e forse proprio per questo più che un approfondimento (è in corso un dibattito permanente da diversi anni) meriterebbe una semplificazione. A patto di tenere conto del fatto che certe dinamiche interessano da sempre ogni movimento di successo, in qualsiasi ambito.
Il vino naturale: l'insidia industriale
In sintesi, le grandi aziende hanno fiutato l’affare e stanno cercando di cavalcare l’onda. Semplicemente, era inevitabile che accadesse: per rendersi conto di certe dinamiche del resto è sufficiente buttare lo sguardo sugli scaffali della grande distribuzione dedicati al biologico. L’imitazione dà la misura del successo di un’idea, scrive la Feiring. Ineccepibile, ma è anche un riconoscimento implicito: avete lavorato bene, avete capito meglio di noi cosa voleva una parte del pubblico. E parliamo di gente che all’inizio liquidava il naturale alla stregua di un fenomeno folcloristico. È chiaro che in certi termini la faccenda può rappresentare un rischio serio per i (piccoli) vignaioli naturali, ma forse bisognerebbe tenere conto del fatto che la dimensione artigianale non è così facilmente riproducibile. Un vin de terroir non può essere progettato da un ufficio marketing né reclutando un enologo di grido.
Vini naturali: l’ideale che diventa marketing
Ma quello dell’autenticità è un problema tutto interno al movimento naturale, inutile prendersela con l’industria o con la critica. Certo, c’è chi tenta in maniera più o meno scaltra di entrare in scia, di saltare sul carro: ma c’è anche da dire che non pochi tra i vignaioli naturali hanno cominciato a replicare certi modelli produttivi senza andare troppo per il sottile (si pensi in particolare alla diffusione urbi et orbi dei rifermentati in bottiglia o dei bianchi macerati) o a fare del mezzo uno scopo (vedi il ricorso crescente e a volte immotivato agli affinamenti in anfora). Qui il discorso si fa semplice: piegare o semplificare una vocazione territoriale per inseguire un modello che si suppone attrattivo è incompatibile con la ragione stessa per la quale è nato il vino naturale, che si è proposto anzitutto come antidoto alla serialità. Un esempio banale: gli esperimenti con la macerazione carbonica – quella dei vini novelli, per capirci – vanno benissimo. Ma se vado in fiera (in Francia ormai è la regola, ma anche dalle nostre parti non si scherza) e me ne vengono proposti cento, peraltro tutti più o meno uguali, forse c’è un problema. La macerazione carbonica è una tecnica produttiva, l’anfora è un recipiente da affinamento: e il fine non sempre giustifica i mezzi. Il rischio vero, peraltro nemmeno troppo remoto, è quello di dare vita a una serialità al contrario che, quella sì, rappresenterebbe un errore fatale.
Vini naturali: le regole
Si è detto più volte che non esiste una definizione univoca di vino naturale e che questa lacuna lascia le porte aperte alle imitazioni; si è caldeggiata l’introduzione di disciplinari allo scopo (anzi, qualche associazione ha provveduto in proprio) ma resta da capire quanto siano compatibili le regole con un movimento nato da una pulsione che potremmo definire anarchica. Per ora i distinguo riguardano, come è comprensibile, i comportamenti in vigna e in cantina. Ci guardiamo bene dall’entrare in una discussione specialistica e molto sentita, ad esempio per quanto riguarda l’utilizzo di lieviti autoctoni o selezionati; qui ci limitiamo a dire che forse il feticcio dello zero solfiti andrebbe un po’ ridimensionato, visto che la solforosa in enologia viene usata da sempre per ragioni note (è un antisettico e un antiossidante) e che la questione vera non sta nel suo utilizzo, quanto nelle modalità e soprattutto nelle quantità. Se - e quando si può - è giusto cercare di limitarne l’uso: ma sarebbe bene anche evitare di proporre al pubblico vini capaci di farne sentire la mancanza. Tralasciamo volutamente il discorso relativo ai sentori difettati che sono sempre più diffusi, figli di un approccio che ha molto a che vedere con la sciatteria e – per quanto possa sembrare paradossale – con l’intenzione di sbandierare una purezza senza compromessi. Il tema è stato trattato di recente da Sandro Sangiorgi in un articolo su Porthos che ha stimolato riflessioni anche polemiche. I punti salienti sono questi; ce ne sono altri e fanno parte di una discussione che va avanti da tempo e che sembra ancora lontana dalla conclusione. Di sicuro c’è che, tornando agli esempi di cui sopra, il successo non è di per sé una sciagura e che non è difficile imbattersi in vini capaci di trasmettere emozioni – perché qui sta il punto vero – e di essere veri e propri atti di resistenza alla serialità e all’omologazione.
Insomma, in giro ci sono ancora tante Smells like teen spirit (no, il verbo “to smell” non ha nulla a che vedere con i sentori di cui sopra) in grado di uscire da una cantina e proporsi al mondo senza giocarsi nulla in termini di integrità e autenticità. Ve ne raccontiamo qualcuna che ci è piaciuta negli ultimi tempi, senza pretese di esaustività ma con la certezza di parlare di prodotti di fronte ai quali è impossibile dire che il vino non sia materia viva. Il naturale, in fondo, è soprattutto questo. E fidatevi, è tutt’altro che morto.
Langhe Nebbiolo 2018, Piero Busso – Pier è il continuatore di una tradizione di famiglia, e questo dalle sue parti significa qualcosa. Al di là di una piccola batteria di Barbaresco tradizionali quanto autentici, siamo rimasti impressionati da questo vino, che porta in dote tutto quello che è lecito aspettarsi da un Nebbiolo di Langa non invecchiato: pulizia, incisività, godibilità e carattere. Un fuori categoria.
3Bianco 2017, Simone Setti – Pochissime bottiglie in giro, ha quasi tutto quello che si può desiderare da un bianco vinificato in rosso (cioè macerato), inclusa una facilità di beva di fronte alla quale non rimane che la resa. Trebbiano rosa con un saldo di malvasia toscana e vermentino, arriva da piccole vigne recuperate qua e là nella zona di Montescudaio: è un vino che ha tutta l’incoscienza e la sbracatezza del suo autore, uno del quale fareste bene a segnarvi il nome perché ne sentirete parlare parecchio.
Slarina Cenerina 2018, Cascina Val Liberata – Hai voglia a chiamarlo outsider: questo vino è uno di quei bagliori che di tanto in tanto il Piemonte è in grado di farci arrivare anche dalle zone più periferiche. Figlio di un vitigno dimenticato e della passione di Deirdre O'Brien e Maurizio Caffer, arriva dal Basso Monferrato e colpisce per quanto è capace di accogliere e di coinvolgere. E di ricordarci che “semplice” non è sinonimo di “banale”.
Spumante Grillo Pas dosé 2011, Nino Barraco – Chi ama le bollicine ma è refrattario ad allontanarsi dal conforto delle certezze acquisite dovrebbe assaggiarlo almeno una volta. Vibra e seduce, evoca e accoglie, spiazza e conforta in un quadro di rimandi giocati sui contrasti e su un equilibrio che vallo a spiegare a parole. E, garantito, dà del filo da torcere a diversi Champagne. Serve altro?
Malvasia 2017, Matej Skerlj – File under “Carso”. Un vino di pietra, di vento e di luce che si affida alla sostanza e all’espressività di una materia eccellente. Ricco e dinamico a un tempo, dà prova di identità e carattere ma è tutt’altro che monolitico; si lascia ricordare per la generosità del sorso e per il filo di inevitabile malinconia al quale ti consegna la bottiglia vuota. Un’interpretazione di territorio impeccabile.
Trebbiano spoletino 2017, Raina – Se di questo vitigno si è ricominciato a parlare di recente il merito va anche a Francesco Mariani, cuoco e vignaiolo in Montefalco. Avete presente un vino giocato in difesa? Bene, qui siamo agli antipodi, alle prese con un piglio sfrontato e con una comunicatività fuori dagli schemi. Facile da bere e da abbinare, un po’ meno facile da dimenticare in cantina: anche se ha tutte le carte in regola per durare nel tempo.
Montemattina 2015, Il Tufiello – Guido Zampaglione è un eterno ragazzo ma ormai non è più una sorpresa per nessuno: un campano che dopo essersi imposto in Piemonte ha deciso di farsi profeta in patria e ci è riuscito. Ne è dimostrazione questo Fiano di montagna: verticalità, sostanza, calore, mineralità. Un gran bel giro di giostra.
Brunello di Montalcino 2014, Bolsignano –
Armando Castagno: "Dove avresti comprato, se non avessi trovato Case Basse?"
Gianfranco Soldera: "A Bolsignano".
Questo stralcio di dialogo dice molto; al resto ci pensa il talento di Roberto Rubegni, che da un’annata particolare ha tirato fuori un Brunello da affrontare senza troppe genuflessioni. Un vino che spiega bene cosa e quanto può dare il sangiovese quando è lasciato libero di esprimersi; un campione di quella Toscana autentica, ruvida e calorosa dalla quale resta impossibile prescindere.