"Natura e uso della terra" è il tema di oggi alla Cop26 di Glasgow. Si parla di come possiamo conservare, gestire meglio, e smettere di distruggere gli ecosistemi del nostro pianeta - e soprattutto le foreste.
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La ragione è semplice: non è possibile limitare il riscaldamento globale a +1.5 gradi senza conservare le foreste e il loro ruolo di sink, cioè di assorbitori di anidride carbonica. Grazie alla fotosintesi, le piante aspirano dall'aria almeno un quarto del nostro inquinamento climatico: un contributo irrinunciabile all'obiettivo net zero, insieme alla riduzione delle emissioni generate degli impianti energetici, le industrie e i trasporti.
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Tutti i modelli climatici usati oggi da scienziati e politici per decidere del nostro futuro danno per scontato che il sink delle foreste rimarrà costante in questo secolo. Ma le foreste sono in realtà doppiamente minacciate. Da un lato la crisi climatica, che sottopone gli alberi a stress letali. Siccità, ondate di calore, tempeste sempre più forti e incendi sempre più vasti attentano alla vita delle piante. Sotto lo stress del caldo e della sete la fotosintesi diminuisce, può fermarsi e addirittura lasciare il posto alla decomposizione, che immette nuova anidride carbonica nell'atmosfera anziché risucchiarla. È così che alcune foreste, come quelle del bacino amazzonico, si sono ormai trasformate da sink a source, diventando fonti di ulteriore inquinamento climatico.
Dove la siccità è più intensa e frequente, come in Amazzonia, la foresta tropicale rischia di trasformarsi in breve tempo in savana - uno dei "punti di non ritorno" del clima terrestre, che secondo gli scienziati si innescherà se il riscaldamento a fine secolo supererà i +3 gradi rispetto all'era preindustriale.
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La seconda minaccia è la deforestazione, cioè l'eliminazione definitiva della foresta. Non è solamente il taglio di alberi che poi vengono fatti ricrescere o ripiantati, ma una trasformazione permanente dell'uso della terra. Secondo le ricostruzioni scientifiche, prima dell'avvento della società moderna il nostro pianeta contava oltre sei miliardi di ettari di foreste - il 45% delle terre emerse. Un miliardo di ettari si è perso tra la rivoluzione neolitica e quella industriale, altri cinquecento milioni di ettari dal 1750 al 1990. E secondo la Fao, negli ultimi trent'anni l'umanità ha eliminato ben 420 milioni di ettari di foreste - un'area grande come l'Unione Europea - lasciando al pianeta solo i due terzi della sua copertura forestale naturale. Una perdita compensata solo in parte dalla crescita, naturale o programmata, di nuovi boschi in altre parti del mondo: a livello globale il saldo è ancora negativo, e oggi sparisce ogni anno una superficie forestale pari all'area della Libia.
In Sud America la foresta Amazzonica, i boschi aridi del Cerrado e del Chaco e le aree umide del Pantanal vengono rimpiazzati da piantagioni di soia e pascoli per il bestiame. In Perù, da miniere d'oro e terre rare. In Indonesia, foreste e torbiere sono state eliminate e prosciugate per realizzare piantagioni di palma da olio. In Africa, le piantagioni di caffè, cacao, canna da zucchero, e centinaia di milioni di persone che praticano una piccola agricoltura di sussistenza hanno favorito la deforestazione. Sulle coste tropicali dell'oceano Pacifico e Indiano, le foreste di mangrovie, le più grandi riserve di carbonio viventi, vengono rimpiazzate da allevamenti di gamberi. Infine, una versione soft della deforestazione è il degrado forestale causato dal prelievo indiscriminato di alberi dal legno pregiato, spesso il primo passo verso la progressiva eliminazione dell'intera foresta da parte degli agricoltori e dei cercatori di minerali preziosi. Secondo l'Interpol, il commercio internazionale di legno illegale è la seconda fonte di reddito per la criminalità organizzata mondiale dopo il traffico di stupefacenti.
Salta all'occhio che la maggior parte dei punti caldi della deforestazione si trova nelle regioni tropicali, che sono le aree più produttive anche per l'agricoltura. Al tempo stesso, le foreste tropicali sono scrigni di biodiversità e di carbonio, ospitando gran parte delle specie che abitano le terre emerse e trattenendo nei loro alberi l'equivalente di mille miliardi di tonnellate di CO2 - e altrettanti nei loro suoli. È una quantità pari a quella emessa in atmosfera dall'umanità dal 1750 a oggi. Eliminare foreste tropicali significa quindi eliminare specie animali e vegetali che contribuiscono a mantenere stabile la biosfera, disturbare il loro equilibrio con virus e batteri potenzialmente dannosi per l'uomo e generare grandi quantità di inquinamento climatico - ad oggi, oltre il 10% delle emissioni prodotte dall'uomo ogni anno. La perdita annua di 4,2 milioni di ettari di foreste primarie, un'area delle dimensioni dei Paesi Bassi, rilascia l'equivalente delle emissioni annuali di 570 milioni di automobili.
Eppure, la deforestazione non riguarda solo i tropici: tra il 30 e il 40% dei prodotti a rischio di deforestazione viene esportato nei Paesi occidentali, come Usa, Unione Europea, Australia e Cina. L'olio di palma nei nostri cosmetici, la soia per l'alimentazione del nostro bestiame, i preparati di carne a basso prezzo che troviamo sugli scaffali dei supermercati, i mobili pregiati prodotti nei nostri distretti industriali di eccellenza portano spesso con sé una "impronta nascosta" di deforestazione, di cui probabilmente non saremmo disposti a renderci complici con i nostri acquisti - se solo ne venissimo a conoscenza.
Ma ecco le sorprese. Nel secondo giorno del vertice di Glasgow i leader di 131 Paesi, che contengono oltre il 90% delle foreste della Terra, hanno stipulato un accordo per fermare la deforestazione entro il 2030. Per realizzare questo obiettivo, 11 Paesi del mondo occidentale e tutta l'Unione Europea hanno messo a disposizione 12 miliardi di dollari. Inoltre, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha annunciato che proporrà al Congresso di contribuire con altri 9 miliardi di dollari, mentre finanziamenti del settore privato aggiungeranno altri 7,2 miliardi di dollari. Ancora, decine di aziende multinazionali si sono impegnate a ripulire le proprie filiere commerciali da prodotti a rischio di deforestazione, mentre 14 donatori governativi e privati hanno impegnato 1,7 miliardi di dollari per sostenere le popolazioni indigene e le comunità locali nel loro ruolo di custodi delle foreste e della natura.
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Possiamo davvero fermare la deforestazione? Non sarà facile né immediato, ma ci sono alcuni motivi per essere fiduciosi. Sebbene il funzionamento del fondo non sia ancora stato specificato chiaramente, è la prima volta che un impegno contro la deforestazione viene accompagnato da "soldi veri". Il precedente impegno, la Dichiarazione di New York sulle Foreste del 2014, era rimasta un annuncio di principio, non sottoscritto da molti Paesi chiave tra cui il Brasile e la Russia, che invece sono tra i firmatari del Forest Pledge di Glasgow. Negli anni successivi a quella dichiarazione, la deforestazione mondiale è addirittura aumentata del 41%. Inoltre, l'ammontare del finanziamento è venti volte superiore al finanziamento dell'unica strategia internazionale anti-deforestazione che finora ha raggiunto un certo successo, il programma dell'Onu Redd+ (Reducing Emissione from Deforestation and Degradation).
A livello di singoli Paesi, esistono anche dei precedenti virtuosi. Il Costa Rica è l'unico Paese tropicale ad aver fermato e invertito con successo la deforestazione, invertendo uno dei più alti tassi di scomparsa di foreste in America Latina a partire dagli anni '70 e facendo ricrescere vaste aree di bosco. Lo ha fatto grazie ai "pagamenti per i servizi ecosistemici", cioè riconoscendo ai contadini che mantenevano intatte le foreste sulle loro proprietà un compenso economico, proporzionale al valore generato alle foreste grazie al loro ruolo di serbatoio di carbonio e di biodiversità. Per questo programma, il Costa Rica ha vinto il primo Earthshot Prize proprio nel 2021. Su scala più ampia, il Brasile ha avuto un notevole successo nel ridurre la deforestazione in Amazzonia dell'80% tra la fine degli anni 2000 e all'inizio del 2010 grazie a nuove leggi ambientali, al miglioramento della sorveglianza del disboscamento illegale (sul campo e da satellite) e a una moratoria della soia. Tuttavia, la deforestazione ha ripreso ad accelerare sotto la presidenza di Jair Bolsonaro, che ha in buona parte smantellato queste misure. Più recentemente, l'Indonesia e la Malesia hanno rallentato con successo la deforestazione con una moratoria sull'espansione dell'olio di palma, che purtroppo l'Indonesia si appresta a non rinnovare.
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Diversi osservatori hanno criticato la scadenza al 2030, ritenuta troppo poco ambiziosa. È vero tuttavia che l'accordo si pone l'obiettivo esplicito di agire su quei settori chiave che guidano le cause profonde della deforestazione, e che richiederanno comunque alcuni anni per essere trasformati, soprattutto nei Paesi più poveri: agricoltura sostenibile, miglioramento del monitoraggio e della criminalità sostegno al reddito e compensazioni per gli agricoltori, miglioramento delle leggi e del riconoscimento dei diritti di proprietà, "ripulitura" delle filiere commerciali, mobilitazione della finanza e sostegno alle popolazioni indigene e native, che secondo molti studi sono responsabile dell'azione di conservazione più efficace nei confronti della foresta - anche rispetto a quanto avviene nei parchi nazionali.
Inoltre, secondo l'istituto per la ricerca ambientale in Amazzonia (Ipam), intervenuto in conferenza stampa il 5 novembre, l'accordo dovrebbe riguardare tutta la deforestazione, e non solamente quella "illegale". Una delle preoccupazioni iniziali era infatti che i Paesi firmatari intendessero riservarsi il diritto di accettare e programmare una certa quota di scomparsa delle foreste, per ragioni economiche e di sviluppo territoriale. Una interpretazione suggerita da alcuni come unica spiegazione plausibile per l'adesione del governo di Bolsonaro a un accordo in apparenza così ambizioso.
E infine, è di fatto la prima volta in 30 anni di conferenze sul clima che riduzione delle emissioni e conservazione dei sink forestali vengono affrontati insieme in modo concreto, una novità che fa sperare in un salto in avanti nella comprensione delle questioni climatiche da parte dei governi mondiali.
Esistono naturalmente anche dei rischi. L'accordo, ad oggi, è avaro di dettagli sulla propria implementazione: come si raggiungerà l'obiettivo? Con quali modalità verranno erogati i fondi? Sarà mantenuta la centralità dell'Onu, proseguendo di fatto lo schema Redd+, oppure si tratterà di accordi bilaterali tra i Paesi, con minori possibilità di verifica e controllo?
In secondo luogo, non è formulata una chiara definizione di deforestazione. In particolare non si specifica ancora se saranno escluse dal trattato le aree dove vengono ripiantati alberi, sebbene spesso per scopi e con modalità commerciali, determinando gravi perdite di biodiversità rispetto alla foresta originaria. Cosa significa questo per Paesi come l'Indonesia e il Brasile, che stanno introducendo politiche che incoraggiano la sostituzione della foresta primaria con piantagioni commerciali, e che sembrano così contraddire ci√≤ che hanno appena promesso?
Infine, si tratta pur sempre di un impegno multilaterale tra un numero limitato di Paesi, che non ricade sotto il controllo diretto della Convenzione Onu sui cambiamenti climatici (Unfccc) e che rischia di generare contraddizioni qualora gli impegni ufficiali formulati dai Paesi nei loro Ndc (Nationally Determined Contribution) nell'ambito dell'accordo di Parigi non vengano resi coerenti con il trattato.
Sarà quindi necessario vigilare; gli impegni sono virtuosi solo se mantenuti. In assenza di un controllo più rigoroso da parte dell'Unfccc, spetterà ai cittadini di tutto il mondo il compito di verificare la buona fede dei leader del mondo sulla deforestazione, agli scienziati controllare i progressi con i più recenti sistemi di monitoraggio satellitare, ai giornalisti raccontare quello che succederà realmente sul campo, e ai consumatori dei Paesi occidentali affiancare l'azione dei governi con scelte di consumo più consapevoli. Perché è solo così che possiamo risolvere la crisi climatica: affiancando impegno personale e organizzazione collettiva, e assumendoci la responsabilità amorevole di mantenere non solo il nostro territorio locale o nazionale, ma tutto il nostro pianeta in condizioni tali da assicurarci una vita sicura e felice.
*Giorgio Vacchiano è Ricercatore in gestione e pianificazione forestale.