Quante volte abbiamo visto buste di plastica galleggiare in acqua? Dobbiamo pensare che quelle buste non solo verranno frammentate in pezzetti sempre più piccoli, fino alle micro e nanoplastiche, ma saranno anche trasformate chimicamente dalla luce solare. Nel giro di poco tempo, infatti, i raggi a contatto con la plastica in acqua agiscono sul materiale e causano il rilascio di molti composti, disciolti in mare, potenzialmente nocivi. Di queste molecole sappiamo ancora poco, ma uno studio condotto dalla Woods Hole Oceanographic Institution, organizzazione statunitense no-profit, fornisce qualche indizio in più. La ricerca, pubblicata su Environmental Science & Technology, mette a fuoco la presenza decine di migliaia di molecole diverse, un numero molto elevato all'interno di un processo almeno 10 volte più complesso di quello che si pensava finora.
Secondo il Wwf a livello globale ogni anno finiscono negli oceani 8 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica. I pericoli non arrivano solo dalle microplastiche, frammenti più piccoli di un millimetro prodotti dalla frammentazione dei materiali e che, ingerite dalla fauna marina, entrano anche nella catena alimentare – anche se per ora l'Organizzazione Mondiale della Sanità non lo ritiene un pericolo per la nostra salute. La luce solare può trasformare e liberare dalla plastica in composti organici solubili, come il carbonio organico disciolto (Doc), che resteranno in mare.
I ricercatori hanno studiato il processo di rottura di 4 diversi tipi di buste di plastica commerciali in polietilene di 3 dei maggiori produttori statunitensi. La plastica scelta non è solo una resina pura, ma contiene vari additivi chimici per farla apparire in un certo modo e ben un terzo del materiale è costituito da questi composti. Fra questi c'è il carbonato di calcio (dal 13 al 34%) e il biossido di titanio (1-2%). I ricercatori hanno immerso per alcuni giorni la plastica in un contenitore con una soluzione ionizzata che simula l'acqua di mare. Hanno poi utilizzato anche un campione di plastica pura, cioè di un film al 100% in polietilene, per confrontarne gli effetti chimici. Analisi chimiche e fisiche hanno permesso di identificare i composti prodotti dall'esposizione al sole nel tempo. I campioni tenuti al buio non producevano grandi quantità di sostanze, mentre le buste esposte ai raggi solari hanno generato fino a 15mila molecole organiche diverse a seconda della presenza o dell'assenza degli additivi. Ma anche la pellicola di plastica pura nuotava in 9mila composti organici.
Studiare la vita della plastica
Attualmente non conosciamo il reale impatto delle sostanze rilasciate dalla plastica, incluse quelle generate dall'azione del sole sulla superficie dell'acqua. Fra i prossimi obiettivi c'è quello di studiare più a fondo la degradazione del materiale, in relazione agli agenti atmosferici e all'andamento degli eventi meteorologici. Oltre a gestire meglio il problema dei rifiuti, infatti, si potrebbe fare di più anche per contrastare il problema emerso oggi.
“Modificando in maniera semplice i componenti dei prodotti”, sottolinea Christopher Reddy, coautore del lavoro, “l'industria della plastica può far sì che si rompano più facilmente una volta che hanno raggiunto la massima durata di vita”. E il mondo della ricerca potrebbe collaborare. Si potrebbe, aggiunge il ricercatore Collin Ward, pensare a nuovi modi per accelerare la degradazione della plastica in composti non dannosi e ridurre al massimo quelli che potrebbero non essere buoni per l'ambiente.
Il devastante impatto dell'acqua in bottiglia sulla natura: incide 1.400 volte più di quella del rubinetto
Un primo studio di alcuni degli autori dello stesso gruppo ha messo in luce che l'uso di particolari biofilm che rivestono la plastica potrebbe ridurre l'effetto dovuto all'esposizione al sole. Insomma, le strade della ricerca sono numerose e ancora tutte percorribili.