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Louhans, cittadina alluvionata nel nord della Francia (foto: Philippe Desmazes/Afp via Getty Images)
Louhans, cittadina alluvionata nel nord della Francia (foto: Philippe Desmazes/Afp via Getty Images) 

Clima, sfida contro il tempo per salvare le città

Un rapporto McKinsey traccia un quadro degli interventi cruciali per fare fronte a ondate di calore, siccità, inondazioni. A cominciare dalle aree costiere ad alto a rischio

3 minuti di lettura

Sono le città a pagare il prezzo più alto ai cambiamenti climatici, come sa bene chiunque in questi mesi viva nei grandi agglomerati urbani, in Italia come nel resto del mondo, dove le temperature, la qualità dell’aria e spesso anche gli eventi estremi – inondazioni, tifoni, incendi e via dicendo – sono più pesanti e più disastrosi che nel resto del territorio. E visto che già oggi più della metà della popolazione mondiale vive in città medie e grandi, quota che salirà al 68% entro il 2050, ecco che il problema assume caratteristiche di urgenza. Partendo da questa realtà, la società di consulenza globale McKinsey, attraverso la sua divisione “Sustainability”, ha unito le sue forze con la C40, un network di cento fra le maggiori municipalità del mondo presieduto dall’italo-americano Eric Garcetti, sindaco di Los Angeles: ne è uscito un ponderoso rapporto intitolato “Focused Adaptation - A strategic approach to climate adaptation in cities”.

Le aree più a rischio

Il primo dato è anche il più preoccupante: più del 90% delle maggiori aree urbane del mondo è costiero. Sono 570 le città a rischio, e sono solo quelle più “depresse” dove anche un innalzamento di 50 centimetri potrebbe avere conseguenze gravi. I danni, calcola McKinsey, potrebbero raggiungere i mille miliardi di dollari, da qui a metà secolo, se non si interverrà. "Più di 800 milioni di residenti nelle città – si legge nel report – potrebbero essere colpiti dall’innalzamento del livello del mare e dalle inondazioni costiere dovute al cambiamento climatico". Anche chi vive in città interne è a forte rischio: 1600 milioni di persone sarebbero vulnerabili di fronte a ondate di calore (dai 200 milioni di oggi) e 650 milioni potrebbero fronteggiare scarsità di acqua.

Clima: 5 azioni urgenti

Ma sulle città costiere, come si diceva, c’è da concentrare la maggiore attenzione per la previsione, contenuta nello stesso rapporto, che il livello delle acque costiere si innalzerà fra i 30 e i 150 centimetri entro la fine del secolo, sempre che non si riesca a contenere il riscaldamento globale nei famigerati 1,5°C dell’accordo di Parigi che sembrano però ogni giorno più lontani. Vanno insomma approntate da subito le difese. Le quali vengono sintetizzate nel rapporto in 15 azioni, a partire da una serie di operazioni che hanno lo scopo di tornare a far prevalere la natura anche in ambito urbano: piantare più alberi è la più elementare ma la più utile (e la meno attuata), soprattutto vicino alle coste: consentono di ripristinare l’equilibrio idrogeologico, aiutano la decarbonizzazione grazie alla fotosintesi clorofilliana (dentro CO2, fuori ossigeno), rendono anche più gradevoli le temperature e più ombrose strade e piazzali oltre a stabilizzare il terreno e renderlo meno dilavabile. Non è finita. Per le città costiere, le più esposte in assoluto, il rapporto ricorda l’importanza di erigere barriere protettive, tipo il Mose per intendersi solo che devono essere fatte di materiali naturali. Come le scogliere artificiali frangiflutti che si trovano di fronte a tante spiagge, su scala molto maggiore.

Ancora più complessa ma altrettanto urgente è una revisione dei sistemi di captazione delle acque, soprattutto di fiumi e laghetti interni alla città (non meno pericolosi in caso di alluvione). La captazione dovrebbe regolare il livello delle acque con opere di presa che consentano l’estrazione dell’acqua in eccesso, grazie a sistemi di pompaggio (impianti di sollevamento) o di convogliamento su canalizzazione, a lato delle sponde. L’importante è che ogni attività connessa alla captazione assicuri la tutela quantitativa e qualitativa della risorsa idrica, prevenendo il depauperamento, l’inquinamento e appunto le inondazioni. Ma la prevenzione dei rischi dovrebbe cominciare, scrive la McKinsey, ancora da prima, da quando cioè vengono impostati investimenti infrastrutturali dentro le città: evitare di costruire canali con il fondo in cemento, ad esempio, e poi creare sistemi di allarme e di pronto intervento – sanitario e logistico - in caso di sciagure naturali. Va da sé che devono essere programmate adeguate risorse economiche per questi costi aggiuntivi. Sono iniziative da studiare per tempo e con la partecipazione di tutti gli interessati: amministrazioni locali, imprenditori, comunità, organizzazioni non governative, scienziati e ingegneri specializzati. I costi, insiste il rapporto, “saranno sicuramente alla lunga inferiori agli eventuali danni successivi, fra i quali primeggia la perdita di vite umane”.

Il report di McKinsey contiene anche un’“antologia” inquietante che dimostra quanto i pericoli siano concreti e attuali. I tre uragani del 2017 – Harvey, Irma e Maria – che si sono abbattuti sulle città costiere del sud e dell’est degli Usa, ad esempio, hanno provocato danni per 265 miliardi di dollari in sole quattro settimane. Nel 2018, per una pesantissima siccità la città di Cape Town in Sudafrica restò a secco di acqua.

Un’altra siccità nel 2019 in India, con annessa ondata di calore, colpì le città di Patna, Gaya e Bhagalpur al punto che si dovettero proibire le attività all’aperto, e costò centinaia di morti. Nel gennaio 2020 l’alluvione di Giakarta uccise 66 persone e mise fuori uso le case per 36mila abitanti. E anche il nostro Paese, come è sotto gli occhi di tutti, paga sistematicamente, anche nelle aree urbane – si pensi a Genova e Venezia negli ultimi anni – il costo degli smottamenti idrogeologici. Per non parlare degli incendi, come hanno tragicamente imparato a loro spese pochi giorni fa i cittadini di Pescara.