“L’Amazzonia è nei guai”, commenta amara ma pragmatica Nancy Harris, ricercatrice del World Resources Institute e coautrice dell’ultimo, allarmante studio sullo stato della grande foresta pluviale. Il processo si è invertito. Meno ossigeno, più anidride carbonica. Il caldo, gli incendi, la devastazione di ampie fette di verde hanno frenato l’assorbimento dei gas e dimezzato l’emissione di ossigeno: un processo essenziale alla sopravvivenza del Pianeta. Secondo l’analisi di oltre 600 campioni d’aria prelevati sui cieli della foresta, si è scoperto che l’Amazzonia ha rilasciato circa il 20 per cento in più di CO2 nell’atmosfera rispetto a quella assorbita nel periodo 2010-2019.
Si è quindi confermata una tendenza che gli studiosi avevano già avvertito ma senza dati ufficiali. I cosiddetti “pozzi”, serbatoi naturali nei quali si accumulano i gas e i vari veleni che il mondo sprigiona ogni giorno ad ogni ora dalle sue industrie e dai mezzi di locomozione, sono stracolmi. Non sono più in grado di raccoglierli rilasciando in cambio ossigeno benefico che ci consente di vivere e respirare. Questa inversione di tendenza è più marcata nelle regioni del sudest dell’Amazzonia, quelle colpite dalle decine di migliaia di roghi che si sono sviluppati nell’ultimo biennio. Il paradosso è che chi ci aiuta a combattere l’inquinamento si trasforma adesso in una delle fonti di intossicazione.
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La natura si difende dall’aggressione dell’uomo e della tecnologia, lancia chiari segnali che invitano al cambiamento di rotta mentre il mondo si allarma, denuncia, promette, si impegna ma alla fine continua a fare quello che ha sempre fatto. “Nella parte orientale dell’Amazzonia”, spiegano gli autori di questa ricerca, pubblicata su Nature e ripresa dal Guardian e adesso anche dalla BBC, “la parte che ha il 30 per cento di deforestazione, si registra l’emissione dieci volte maggiore di carbonio rispetto a quella occidentale dove è stato disboscato l’11 per cento del suo verde”. Secondo Luciana Gatti, capo progetto di ricerca dell’INPE, l’Istituto nazionale brasiliano di ricerca spaziale che ha fornito le rilevazioni, “si tratta di un impatto enorme. Stiamo emettendo CO2 nell’atmosfera. Questo accelera il cambiamento climatico e modifica anche l’intensità, i tempi, le condizioni della stagione secca. Gli alberi sono sottoposti a stress e producono sempre più emissioni. È un terribile feedback negativo”. Le temperature nella foresta sono infatti aumentate di 3,07 gradi nei due mesi più caldi dell’anno. Lo stesso incremento è registrato perfino nell’Artico dove il caldo è tre volte superiore della media globale.
Le conseguenze si avranno non solo sull’ambiente. Pensiamo all’agricoltura, alla pesca, ai corsi dei fiumi con le centrali che a loro volta riusciranno a produrre meno energia elettrica. Agendo sulle industrie, le case, la corrente in generale, quindi i frigoriferi, con il cibo che non si potrà conservare. Sulle pompe idrauliche che non potranno più portare l’acqua potabile ai piani alti dei palazzi. Per non parlare dell’aria condizionata, indispensabile per lavorare, e vivere, nei paesi avvolti da temperature torride.
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Non sono scenari da incubo. È la prospettiva che si affaccia all’orizzonte con cui il mondo, prima o poi, dovrà fare i conti e porre rimedio prima che si troppo tardi. La devastazione che ha colpito Germania e Belgio è un segnale evidente. La parte del mondo più moderno e industrializzato non è immune da un disastro che riguarda tutti, indistintamente. Chi più chi meno. Ma tutti. “Le elevate emissioni dovute alla deforestazione”, conclude Luciana Gatti, “le stesse che hanno afflitto la regione amazzonica per decenni così come gli impatti dei cambiamenti climatici sulle foreste come siccità, incendi, morti indotte dal calore diventeranno sempre più comuni nel prossimo decennio”.

Allarmi già ascoltati in passato. Il presidente Joe Biden ne ha fatto una bandiera del suo programma. L’Europa lo considera un caposaldo del suo Piano di rilancio. L’Italia di Draghi l’ha messo ai primi punti del programma di resilienza e ripresa economica. Ma ci sono decine di altri paesi che annuiscono, convengono ma poi si voltano dall’altra parte e proseguono con l’emissione di anidride carbonica. Fino ai più scettici e negazionisti. Come il Brasile di Bolsonaro che invece di difendere l’Amazzonia la consegna ai privati e a chi disbosca per le sue mandrie e le sue coltivazioni intensive.