Far affidamento sull'effetto cuscinetto di piante e suolo nella lotta all'aumento dei livelli di anidride carbonica non è una grande strategia. Anche perché il loro ruolo per l'assorbimento del carbonio andrebbe ridimensionato, soprattutto per quel che riguarda il suolo. È questo il messaggio che arriva da uno studio pubblicato di recente su Nature, che appunto ridimensiona (in parte) il ruolo del suolo come carbon sink nella lotta all'aumento dei livelli di anidride carbonica. In particolare, scrive il team guidato da César Terrer del Lawrence Livermore National Lab e della Stanford University, l'equazione più CO2 nell'aria più carbonio imprigionato in piante e suolo non vale sempre. E il motivo avrebbe a che fare con le strategie di crescita delle piante e la loro necessità di estrazione dei nutrienti dal suolo, che da ultimo potrebbero anche compromettere la sua capacità di carbon sink.
In linea di principio generale le piante e i suoli possono contribuire alla riduzione dell'anidride carbonica, fissandola. Si stima, ricordano gli autori, che ogni anno insieme riescano ad assorbire circa il 30% delle emissioni antropiche. Ma credere il sistema terra solo un fissatore di anidride carbonica è sbagliato. Sì, è vero, le piante assorbono CO2 dall'atmosfera attraverso la fotosintesi, ed è anche così che il carbonio arriva da ultimo al suolo, attraverso i detriti vegetali, oltre che come materia organica in generale, anche animale, nonché microbica. Ma il carbonio nel suolo è soggetto a un equilibrio, scrivono Terrer e colleghi in apertura del loro lavoro, dal momento che oltre quello che arriva se ne può anche perdere in uscita, attraverso i processi di respirazione. E di decomposizione della sostanza organica, ricorda Giorgio Matteucci, direttore dell'Istituto per la Bioeconomia del CNR e vicepresidente della Società Italiana di Selvicoltura ed Ecologia Forestale (SISEF). Così non è scontato che all'aumentare dei livelli di anidride carbonica aumenti la biomassa delle piante e il carbonio presente nel suolo, perché crescere, non è solo fare fotosintesi.
“Per crescere servono anche i nutrienti, come l'azoto ma non solo. In questo senso l'aumento di biomassa comporta una stimolazione dei processi che portano nutrienti alla pianta da parte delle comunità microbiche e fungine”. È come se, va avanti Matteucci, il ciclo del carbonio del suolo e dei nutrienti, subisse un'accelerazione. In altre parole, le attività a sostegno della crescita vegetale potrebbe da ultimo anche ridurre la capacità di carbon sink del suolo. “Lo stesso discorso vale anche per altre risorse, come l'acqua, serve anche questa per garantire la crescita”, precisa Matteucci.
Di per sé, ammette però l'esperto, il tema del peso dei nutrienti sull'aumento della biomassa in risposta all'aumento dei livelli di CO2 non è nuovo. Nuova piuttosto è l'idea di considerare tutti questi aspetti nel prevedere le risposte degli ecosistemi terrestri all'aumento di anidride carbonica nell'atmosfera. Terrer e colleghi nel loro studio hanno esaminato oltre cento esperimenti fatti in condizione di CO2 elevata, osservando che se è vero che in risposa a questi innalzamenti la biomassa delle piante cresce, non sempre di conseguenza accade per il contenuto di carbonio del suolo. Anzi: “Quando la biomassa delle piante è fortemente stimolata a livelli elevati di CO2, i livelli di carbonio organico nel suolo diminuiscono – scrivono gli autori – viceversa, quando la biomassa è debolmente stimolata, i livelli di carbonio organico nel suolo aumentano”.
Foreste, alleate del clima e della biodiversità
“Gli autori hanno anche verificato che gli attuali modelli per la simulazione delle risposte del ciclo del carbonio degli ecosistemi all’aumento di CO2 non tengono in debito conto questi processi”, precisa Matteucci. Il rischio di considerare a braccetto l'aumento di biomassa e di carbonio nel suolo in risposta all'aumento di anidride carbonica nell'atmosfera è di sovrastimare il ruolo di questi ecosistemi come assorbitori terresti di carbonio, va avanti Matteucci: “Gli ecosistemi ci daranno una mano ma rischiamo di sovrastimare quanto con i modelli attuali”, soprattutto per quel che riguarda il suolo delle foreste, rimarca il team di Terrer: “Il messaggio principale, da ribadire ancora una volta, è l'importanza di ridurre le emissioni”, riprende Matteucci. Più che pensare a sistemi di compensazione.
“Nel mondo i suoli immagazzinano più carbonio di quello contenuto in tutta la biomassa vegetale – ha commentato Rob Jackson della Stanford University, tra gli autori del paper: “I suoli hanno bisogno di più attenzione quando consideriamo il destino di foreste e praterie al variare delle condizioni atmosferiche”.
E proprio al riguardo, concludono gli autori, l'invito è a rivalutare il ruolo delle praterie come stock di carbonio nel suolo, anche a fronte di una minore capacità di fissaggio del carbonio in biomassa vegetale. “In alcuni casi il cambio di ecosistema, come appunto il passaggio da una prateria a una foresta, può apparire ragionevole, ma anche se il sequestro di carbonio dall'atmosfera da parte della biomassa vegetale aumenta, le radici degli alberi vanno ad esplorare spazi di suolo non esplorati dall'erba, esponendo di fatto la sostanza organica a un ciclo più veloce”, conclude Matteucci: “Diversamente accade però se i progetti di forestazione riguardano i terreni agricoli o quelli degradati, sfruttati e impoveriti di nutrienti: in questo caso aumenta sia la biomassa vegetale che la quota di carbonio stoccato a terra”.