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Arabia Saudita, la lunga scommessa delle rinnovabili

Un saudita segue una partita di golf nel King Abdullah Economic City di Jeddah
Un saudita segue una partita di golf nel King Abdullah Economic City di Jeddah (afp)
Nei Paesi del Golfo milioni di barili di petrolio e altrettanti metri cubi di gas sono rimasti bloccati per il crollo della domanda, con impatti pesanti sull'economia. Il Covid ha dato una spinta significativa allo sviluppo di progetti di energia alternativa. Ma ci vorrà del tempo perché la regione che al petrolio e al gas ha legato la sua stessa identità cambi rotta
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La goccia che ha fatto traboccare il vaso è, in realtà, una gocciolina: o piuttosto miliardi di esse. Quando i conti definitivi dei danni economici provocati dall’epidemia di coronavirus verranno completati, non ci sarà da stupirsi se si scoprirà che una delle regioni al mondo più colpite è stata quella dei Paesi del Golfo: nei mesi in cui il mondo si è fermato, milioni di barili di petrolio e altrettanti metri cubi di gas sono rimasti bloccati nei Paesi di origine per il crollo della domanda, con impatti pesanti sull’economia – -4,1% rispetto all’anno precedente è la contrazione del Pil nell’area GCC, quella dei Paesi del Golfo appunto, secondo le stime della Banca Mondiale – e sulle prospettive future di Paesi che negli ultimi decenni proprio grazie agli introiti generati dagli idrocarburi hanno cambiato volto.

Il trend non è destinato ad invertirsi presto: anche quando l’economia mondiale ripartirà, ci vorranno anni per assorbire lo shock e tornare ai livelli di inizio 2020. Eppure non tutto il male viene per nuocere: se c’è una cosa su cui tanti studi concordano, è proprio il fatto che la crisi del Covid ha dato una spinta significativa allo sviluppo di progetti di energia alternativa in quest’area del mondo: un processo iniziato già in precedenza e che da qui al 2030 si è dato traguardi importanti. Non serviranno a cambiare il volto di una regione che al petrolio e al gas ha legato la sua stessa identità, ma a modificarlo in parte sì.

Idrogeno e nucleare. Negli ultimi due anni, le parole idrogeno e energie alternative hanno iniziato ad apparire con frequenza sempre maggiore sui giornali locali: progetti per costruire stazioni di rifornimento di idrogeno per auto sono in cantiere da tempo sia negli Emirati arabi uniti che in Arabia Saudita. E l’Arabia Saudita ha annunciato la costruzione del più grande impianto di idrogeno a livello mondiale: un investimento da 5 miliardi di dollari, che dovrebbe diventare operativo nel 2025 e che garantirà una produzione energetica equivalente a quella di 15mila barili di petrolio al giorno. Una scommessa enorme, che punta a proiettare il Paese nel futuro, ma che allo stesso tempo spiega bene come gli equilibri energetici della regione non siano destinati a modifiche rapide: 12 milioni di barili al giorno è il livello attuale di produzione di petrolio in Arabia Saudita.

Al di là degli annunci, a suscitare le reazioni più accese è stata la pubblicazione qualche mese fa, sul quotidiano britannico The Guardian, di indiscrezioni su uno studio cinese che rivela la presenza di riserve di uranio per 90 mila tonnellate in tre diversi punti dell’Arabia Saudita. I geologi di Pechino ipotizzano che dall’estrazione il regno possa ricavare uranio sufficiente per produrre combustibile nucleare sia per uso interno che per export. Finora il progetto è avvolto dal mistero: benché da anni Riad parli della possibilità di costruire centrali nucleari per la produzione di energia, la possibilità spaventa - e non poco - gli osservatori internazionali, preoccupati per un possibile braccio di ferro nucleare con l’Iran.

Energia solare. Al di là dei titoli di stampa, è all’energia solare che bisogna guardare come al vero motore del cambiamento futuro: i ¾ dei progetti sulle energie rinnovabili nella regione si basano sull’energia solare fotovoltaica, seguiti (10% circa) da quelli che sfruttano i sistemi a concentrazione solare, e infine dall’energia eolica, settore su cui si sta muovendo in particolare l’Oman. Il Maktoum solar plant di Dubai, lo Sweihan project di Abu Dhabi e il Sakaka project dell’Arabia Saudita sono gli impianti di energia solare fotovoltaica simbolo dell’area: i più grandi e quelli in cui si sta sperimentando una produzione con range che vanno dai 2,99 ai 2,34 centesimi di dollari per kilowattora (dati 2019).

Secondo uno studio dell’IRENA (l’Agenzia internazionale per le energie rinnovabili) l’energia scaturita dalle rinnovabili nei Paesi del Golfo è cresciuta del 400% negli ultimi quattro anni. Un numero importante, che di certo è anche il frutto di percentuali di partenza bassissime: a inizio 2018 su un totale di 146 gigawatt (GW) di potenza installata nella regione solo 867 megawatts (MW) – meno dell’1% - veniva da energie rinnovabili. E il 68% di questa capacità era concentrata negli Emirati. Ma che si basa anche su un potenziale ancora tutto da sfruttare: su di esso scommettono in particolare gli Emirati, che un anno fa  hanno annunciato che entro il 2050 puntano ad ottenere il 50% dell’energia da fonti rinnovabili. Più del doppio rispetto al target già fissato per il 2021 che  - nella fase pre-Covid – era del 24%.

I numeri. IRENA stima che se la regione raggiungerà i target di sviluppo delle energie rinnovabili e di riduzione degli idrocarburi stabiliti dall’Accordo di Parigi del 2015 sul clima, entro il 2030 taglierà di 354 milioni di barili la quantità di petrolio dedicata alla produzione di energia (-23% rispetto al 2017), di 136 milioni di tonnellate di biossido di carbonio, ridurrà la quantità di acqua necessaria per produrre energia del 17% rispetto al 2017 e creerà 220500 posti di lavoro, l’89% dei quali concentrati nel settore dell’energia solare: 11.5 sono i miliardi di litri di acqua verrebbero risparmiati solo nel processo di estrazione di gas e petrolio, - 17% rispetto al totale odierno. Per capire l’importanza di questa cifra è essenziale metterla nel contesto generale: quattro dei sei Paesi della regione del Golfo sono fra i 10 al mondo dove l’acqua scarseggia maggiormente, secondo i dati del World Resource Institute. La stessa fonte stima che la crescita della popolazione farà crescere di cinque volte rispetto ai livelli attuali la domanda di acqua nel 2050: risparmiare acqua, in quest’area del mondo, non è solo una questione di ecologia, ma di sopravvivenza.
 
Il patto sociale. Ma non basta: dietro alle quinte di quello che i governi amano presentare come un passo avanti verso la diversificazione economica e lo sviluppo sostenibile, ci sono anche timori politici. Benché strutturato in maniera diversa di luogo in luogo, il patto sociale che sta alla base di questi Paesi è simile: tasse assenti o molto basse, garanzie in termini di lavoro e di agevolazioni sociali in cambio di partecipazione alle decisioni di governo praticamente inesistente. Un modello basato sui ricchi introiti garantiti da petrolio e gas e che ha consentito alle diverse monarchie di regnare senza contestazioni, ma che oggi, di fronte al crollo dei prezzi degli idrocarburi e dunque delle entrate nei bilanci statali, vacilla.

Oman e Bahrein sono da anni alle prese con dure crisi economiche degenerate in episodi di protesta senza precedenti, l’Arabia Saudita è stata costretta a introdurre per la prima volta nella sua storia una tassa sui consumi e ad aumentare i costi di acqua, elettricità e benzina, gli Emirati Arabi Uniti a varare leggi che facilitassero la vita degli stranieri per prevenire una loro fuga dal Paese, con conseguente crollo economico. La creazione di strade di sviluppo alternative rispetto a quelle tradizionali – e dunque di posti di lavoro - è nel medio e lungo periodo fondamentale per la sopravvivenza degli equilibri regionali. E i governanti lo sanno bene: "Nelle pieghe di questa crisi c’è l’opportunità di modificare la direzione che prenderà la ripresa economica e l’agenda per lo sviluppo futuro di questa regione. Mai come ora questi Paesi hanno la possibilità di pensare a che tipo di futuro vorranno offrire ai giovani. Non si può perdere la possibilità di modellare in maniera diversa il futuro della regione", scriveva qualche giorno fa sul quotidiano pan-arabo Asharq al Awsat Issan Abousleiman, direttore dell’ufficio per i Paesi del Golfo della Banca mondiale.